Civiltà Scomparse: Il Fascino di Atlantide #2

Lettori, compagni di viaggio nel regno del mistero e dell’ignoto, bentornati tra le nebbie del tempo, lì dove risuona il nome di Atlantide. Non è solo una terra perduta, ma un sussurro affascinante che attraversa i millenni, un enigma le cui spire attorcigliano la storia e la fantasia, lasciando dietro di sé solo domande senza risposta. Dove si celava questa civiltà così avanzata da svanire nel nulla? E quando, esattamente, il suo fulgore si spense? Le teorie si rincorrono come ombre in un labirinto, tessendo trame complesse tra epoche remote e luoghi inesplorati. Eppure, tra le innumerevoli ipotesi che danzano sul filo del rasoio, ve n’è una che con insistenza ci riporta alle radici stesse della leggenda: che Atlantide non sia altro che l’eco distorta di antiche calamità naturali che sconvolsero le coste della Grecia, trasformando la memoria di un disastro in un mito immortale. Ma siamo sicuri che sia solo questo? Il mistero di Atlantide continua a pulsare, un cuore antico nel petto dell’ignoto.

Il vero enigma di Atlantide non risiede solo nel suo quando, ma anche nel suo dove. Dobbiamo osare spingerci oltre le certezze, sfidare le mappe conosciute per esplorare terre ignote. Platone, con la sua ineguagliabile perspicacia, la collocò senza mezzi termini a occidente delle mitiche Colonne d’Ercole, il nostro stretto di Gibilterra, suggerendo così un’esistenza celata da qualche parte nell’immensità dell’Oceano Atlantico. Un’ipotesi, tra le più affascinanti, la colloca nel cuore pulsante del Mare dei Sargassi, dove alghe galleggianti si intrecciano in un sudario verde. Si dice che dopo l’inabissamento della grande isola, quelle acque divennero impraticabili, un cimitero liquido di vite perdute. Forse un monito arcano che ancora oggi ci sussurra la verità sull’ubicazione di un impero inghiottito dagli abissi.

Ma l’assenza di rovine sommerse a occidente di Gibilterra, non è forse essa stessa un enigma? Un silenzio che ci sfida a guardare oltre, a non accettare risposte troppo facili. È proprio questa inquietante mancanza di tracce a spingere alcuni storici contemporanei a deviare lo sguardo e a volgerlo verso orizzonti inattesi. E così, l’attenzione si sposta a est, verso un’altra isola, avvolta nel mito e nella storia: la greca Santorini. Un luogo che porta incisa nella sua roccia la memoria di eruzioni vulcaniche devastanti, un’ira della terra che si è scatenata ciclicamente, l’ultima volta appena qualche mese fa. E se il mito di Atlantide, anziché sprofondare nell’Atlantico, fosse in realtà il ricordo di un cataclisma avvenuto nel cuore dell’Egeo, un’esplosione tanto violenta da riscrivere la geografia e generare una leggenda senza tempo? Il vero mistero, forse, è non volersi arrendere alle apparenze.

Tremilacinquecento anni fa, in un giorno che l’oblio ha cercato di inghiottire e che non viene nemmeno ricordato nei libri di storia, attorno al 1520 a.C., la terra stessa si squarciò. L’intero cuore dell’isola di Santorini, un’area di ben 60 chilometri quadrati, precipitò nell’abisso marino in un istante terrificante. Quell’evento titanico non solo scagliò una coltre di cenere vulcanica spessa oltre 30 metri su quella che allora era conosciuta come Thera, seppellendola sotto un sudario grigio, ma generò anche un’onda colossale. Un’onda di distruzione che, con la sua furia inarrestabile, si riversò su Creta, a poco più di cento chilometri di distanza, sommergendo ogni cosa. E se invece di Santorini fosse proprio quella Creta, con la sua civiltà minoica che fioriva attorno alla maestosa Cnosso, la vera Atlantide?

Per comprendere la portata di quel cataclisma che inghiottì Santorini, dobbiamo volgere lo sguardo a un altro orrore eruttivo, un’eco di distruzione di cui abbiamo maggiori testimonianze. Parliamo dell’eruzione di Krakatoa del 1883, tra Giava e Sumatra, un evento che squarciò il velo della normalità e riscrisse il significato stesso di “disastro”. Immaginate: la cenere vulcanica non si limitò a oscurare il cielo, ma si spinse fino alla stratosfera, viaggiando con i venti più lontani, fino a lambire le coste dell’Europa. Per quasi 200 chilometri intorno al vulcano, il giorno si tramutò in una notte innaturale, densa e opprimente. E il rumore… oh, il rumore! Il più assordante mai registrato nella storia umana, un boato così potente da essere udito fin oltre 3.500 chilometri di distanza, fino alle spiagge lontane dell’Australia. Se la natura può scatenare una tale furia, non è difficile credere che un evento simile abbia potuto generare non solo distruzione, ma anche leggende immortali, racconti di mondi perduti che ancora oggi ci affascinano e ci tormentano.

Eppure, persino la furia inaudita di Krakatoa impallidisce di fronte a ciò che accadde a Thera. Gli storici raccontano che l’intensità di quell’eruzione primordiale, avvenuta ben 3.500 anni fa, fosse meno della metà di quella del cataclisma greco. Immaginate la potenza che distrusse quell’isola. Per cogliere la vera scala di quell’evento, basta osservare l’immensa cicatrice che ancora oggi squarcia il paesaggio: un gigantesco cratere, trasformato in una baia profonda, che separa Santorini dalle piccole isole circostanti. Un tempo, tutte queste terre erano un’unica massa, un unico corpo. Ora, quel vuoto azzurro testimonia la violenza inimmaginabile che le ha separate, scolpendo per sempre nel mare e nella memoria il ricordo di un’apocalisse che potrebbe aver dato origine al mito di Atlantide.

Santorini, l’isola che oggi emerge dalle acque, è un luogo di una bellezza singolare e, a ben guardare, profondamente inquietante. Il traghetto che giunge dal Pireo, sulla rotta per Creta, non attracca in un porto qualunque, ma si insinua sotto imponenti faraglioni neri, scoscesi e minacciosi. Lì, una strada a zig-zag, quasi verticale, si arrampica vertiginosamente verso l’alto, come una cicatrice sulla pelle della montagna. In cima a questa ascesa mozzafiato, si trova il delizioso Hotel Atlantis, un nome che non può che risuonare con un’eco sinistra, quasi profetica. Da qui, lo sguardo si perde sulla baia profonda, uno specchio d’acqua che, in realtà, è la bocca aperta di un vulcano immenso e non ancora sopito, un gigante addormentato che respira sotto la superficie. La stessa strada che conduce al porto porta il nome di Spyros Marinatos, un archeologo che dedicò la sua vita a svelare i segreti di quest’isola. I suoi scavi, in particolare nel villaggio abbandonato di Akrotiri, una Pompei dell’Egeo sepolta dalle ceneri, lo condussero a una convinzione sconvolgente: che quella fiorente colonia minoica, scomparsa nel cataclisma, fosse in realtà la scintilla, il seme dal quale germogliò la leggenda immortale di Atlantide. E se fosse proprio qui, sotto i nostri occhi, che il confine tra storia e mito si dissolve?

“Gli egizi hanno sicuramente avuto notizia dello sprofondamento di un isola che allora si chiamava Thera, e oggi Santorino, ma non sapevano che si trattava di un isola piccola e relativamente poco importante. E il terribile evento lo trasferirono invece alla vicina Ceta, l’isola così gravemente colpita e con la quale persero improvvisamente ogni contatto. E la leggenda di un intera armata inghiottita derivò dalla notizia della perdita di migliaia di persone. Con la mancanza di logica e di consequenzialità tipica delle leggende e dei miti, lo stesso Platone non fece caso all’ impossibilità che Atlantide nell’ oceano Atlantico e l’ armata ateniese, naturalmente ad Atene, siano affondate insieme e contemporaneamente.» S. Marinatos.

Tra le incredibili scoperte fatte nella città sepolta di Akrotiri ci sono i resti di una stupenda pittura murale di circa 3×4 metri, nella quale si possono ammirare 6 ninfe che offrono fiori a una dea dai seni nudi con un pavone a fianco. Il pavone era sacro a Era, dea dell’ Olimpo moglie e sorella di Zeus, alla quale era stato dedicato un magnifico tempio sull’isola di Samo. L’ affresco ora è stato portato al museo Bizantino di Atene. Il professore Marinatos rimase anche un po’ confuso dalla mancanza di vita che i suoi studi rivelavano. «Non abbiamo trovato neanche uno scheletro,» disse, «nonostante noi sappiamo che migliaia di persone devono essere morte a causa del terremoto e delle eruzioni vulcaniche.»

Come già visto in precedenza nel 1500 a.C., un’ombra si allungò su Creta. Un cataclisma, di proporzioni inaudite, inghiottì la fiorente civiltà minoica, fino ad allora fulcro di commerci e scambi con l’Egitto. Senza un apparente motivo, la loro avanzata cultura svanì nel nulla, lasciando dietro di sé solo silenzi e rovine. Fu allora che Amenofi III, il faraone d’Egitto, distolse lo sguardo dall’isola perduta per stringere nuove, inattese alleanze con Micene, nel Peloponneso. Da quel momento, Creta, un tempo faro del Mediterraneo, fu condannata all’oblio, cancellata dalle pagine della storia. Cosa accadde realmente? Il mare inghiottì i suoi segreti, o fu qualcosa di più sinistro a sigillare il destino dei Minoici?

Le testimonianze dei contatti tra Creta e l’Egitto risuonano ancora tra le rovine di Cnosso, e raccontano storie di un’era dimenticata. Poco fuori Candia, l’attuale capitale, sorge una ricostruzione che quasi commuove, opera di Sir Arthur Evans, l’archeologo inglese che all’inizio del secolo dedicò la sua fortuna a riportare in vita un frammento dell’antica Creta. Ma in questo luogo di apparente tranquillità, tra due dolci colline, si cela un’ombra. Qui regnò Minosse, il re il cui nome è indissolubilmente legato alla leggenda più inquietante dell’isola: quella del Minotauro. Una creatura metà uomo e metà bestia, imprigionata in un labirinto così intricato da sembrare vivo, un abisso di pietra dove ogni anno venivano sacrificate sette giovani donne e sette giovani uomini. Un tributo di sangue che macchiava l’opulenza del suo regno. Questo labirinto primordiale, potrebbe aver ispirato le tortuose vie piastrellate che i cristiani medievali percorrevano in ginocchio nelle loro chiese. Il mistero di Creta è un velo che ancora oggi attende di essere sollevato. «Il labirinto » dice uno scrittore di inizio secolo scorso, «così facile da entrarci e così difficile se non impossibile da uscirci è chiaramente il simbolo della vita umana.»

Mentre gli scavi di Sir Arthur Evans si addentravano nel cuore di Cnosso, la terra stessa sembrò fremere. Un lieve terremoto scosse il sito, innocuo nelle sue conseguenze, eppure sufficiente a risvegliare un’antica credenza. Fu un brivido che ricordò a tutti la convinzione minoica: i tremori della terra erano causati da una divinità ctonia, un gigantesco toro le cui corna possenti scuotevano le fondamenta del mondo. Non è un caso che persino Omero, secoli dopo, attribuisse a Poseidone l’epiteto di “scuotitore della terra”.

Creta: la più vasta delle isole greche, e forse la più enigmatica, custodisce segreti sepolti nel tempo. I suoi abitanti, un popolo di tempra indomita e spirito fiero, portano ancora i segni di un passato duro. Nelle remote vette montane, dove l’aria si fa più sottile e il paesaggio più aspro, si incontrano ancora figure avvolte negli antichi costumi neri, con stivali alti. Un ricordo di questo indomito vigore, di questa viscerale indipendenza, può essere colta nelle parole del più celebre cantore di Creta, Nikos Kazantzakis. La sua opera più nota, il bestseller “Zorba il Greco“, affonda le radici proprio in questa terra misteriosa, dove lo scrittore visse e, infine, trovò la quiete eterna.

Candia, l’ombra silenziosa che veglia su Cnosso, fu in tempi antichi il suo battello d’accesso al mondo. Nel IX secolo, un’ondata araba la trasformò, erigendo un forte che ne sigillò la nascente importanza, un baluardo di misteri e conquiste. Poi vennero i Veneziani, le cui impronte sbiadite ancora si intravedono, seguirono i Turchi, lasciando anch’essi le loro enigmatiche tracce. Oggi, con le sue 70.000 anime, Candia si presenta con un velo di apparente tranquillità, un crocevia cosmopolita dove il tempo sembra essersi fermato. I visitatori, incantati, si perdono tra i tavolini dei caffè all’aperto, ipnotizzati dal sussurro della fontana seicentesca che domina la piazza principale. Ma sotto questa patina di calma, si annidano segreti più profondi. Qui, in un luogo non lontano, nacque El Greco (1541-1614), le cui visioni contorte sembrano ancora aleggiare nell’aria. E qui, tra le mura antiche, riposa per l’eternità Nikos Kazantzakis (1885-1957), il cui spirito inquieto continua a sussurrare storie di un’isola senza tempo. Ogni giorno, i traghetti dal Pireo approdano, portando nuovi volti a interrogare i suoi enigmi.

Eppure l’enigma persiste. Se Atlantide è più di un sussurro del vento, se davvero le sue rovine giacciono sepolte nelle profondità della Grecia, allora non fu che una tra le innumerevoli civiltà inghiottite dall’oblio. Un’altra tessera in un mosaico di scomparse, un’altra eco nel coro silenzioso di ciò che fu e non è più.

Atlantide, per molti, non è solo una leggenda, ma la metafora di una terra scomparsa da un tempo immemorabile, un’entità avvolta nel mistero che, chissà, potrebbe un giorno riemergere dalle profondità. Questa fascinazione per civiltà perdute non è un fenomeno isolato; echi di storie simili risuonano in ogni angolo del mondo. Basti pensare alla leggenda della Terra Perduta della Leonessa o la mitica Avalon al largo delle coste della Cornovaglia, dove si narra che il popolo di Re Artù sia svanito dopo la sua ultima, fatale battaglia.

Nel XVII secolo lo storico William Camden annota che i pescatori al largo delle coste britanniche di quella zona portavano continuamente a galla, nelle reti, pezzi di muratura e nell’area attorno alle isole Scilly, durante la bassa marea, era possibile vedere antiche mura di difesa.

Tuttavia, inquietanti discordanze gettano ombre su queste affascinanti teorie. I geologi sostengono che i maggiori cedimenti di terreno lungo l’instabile margine atlantico – una regione tormentata dall’attività vulcanica – si siano verificati molto prima dell’Età del Bronzo (2000 a.C.), lontano dall’epoca di Re Artù, solitamente collocata attorno al 500 d.C. Eppure, il mistero si infittisce: erosioni e inabissamenti continuano ancora oggi, e innumerevoli isole vulcaniche compaiono e svaniscono dagli oceani con una regolarità quasi spettrale. Datazioni esatte rimangono un miraggio, lasciandoci solo con ipotesi frammentarie. I geologi suggeriscono che le isole britanniche fossero connesse all’Europa continentale ben 8000-9000 anni prima dell’era cristiana. Queste cifre, così distanti dalle leggende, complicano il quadro, ma non lo dissolvono. Anzi, forse lo rendono più intrigante.

Molto bene viaggiatori, è venuto il momento di ripartire dalle coste di Atlantide. La nostra fidata barca ci aspetta paziente per continuare la nostra ricerca della magia e per tornare ai nostri tempi. Altri luoghi misteriosi ci aspettano.

Alice Tonini

Una replica a “Civiltà Scomparse: Il Fascino di Atlantide #2”

  1. Avatar La Magia e i Miti Europei: Un Viaggio Intrigante🚀 | Alice Tonini

    […] ●Ci siamo persi, la navigazione è stata particolarmente difficile e siamo finiti sulle spiagge di Atlantide. Isola perduta tra le nebbie del tempo abbiamo provato a capire dove si trovasse e chi fossero gli abitanti. Purtroppo trovare una risposta è stato difficile, abbiamo potuto fare solo ipotesi ma siamo ripartiti con la sensazione di aver toccato, anche solo per un minuto, la magia delle leggende. Riscoprire Atlantide: Tra Mito e Verità #1, Civiltà Scomparse: Il Fascino di Atlantide #2 […]

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Momenti Magici: Dove Fantasia e Luoghi Si Incontrano

Carissimi lettori del mistero e dell’ignoto, c’è un ricordo che custodisco con particolare affetto, un momento in cui la mia passione per la letteratura del mistero, il folklore e i luoghi leggendari si sono intrecciati in modo indimenticabile. Non si è trattato di un’esperienza grandiosa o di una scoperta clamorosa, ma di un pomeriggio tranquillo, avvolto in un’atmosfera che sembrava uscita da un romanzo gotico.

Ero in visita a un piccolo lago alpino, di quelli che ti aspetti di trovare descritti nelle pagine di un racconto di Sheridan Le Fanu, con le sue acque cupe che riflettevano le montagne circostanti e un velo di nebbia che a tratti si levava dalla superficie. Il cielo era plumbeo, minacciando pioggia, e il silenzio era rotto solo dal fruscio del vento tra gli alberi. Avete presente il Lago di Molveno? Forse non si tratta di una meta turistica molto conosciuta, è piccolo ma estremamente affascinante.

In quel pomeriggio così suggestivo, avevo scelto di leggere “Il Mastino dei Baskerville” di Arthur Conan Doyle. Immaginate la scena: seduta su una panchina di legno consumata dal tempo, con il lago misterioso di fronte a me e le parole di Doyle che prendevano vita, sembrava che la brughiera di Dartmoor si fosse in qualche modo fusa con il paesaggio alpino. Ogni pagina che voltavo, ogni descrizione della desolazione della brughiera e dell’inquietante ululato del mastino, risuonava con l’ambiente circostante. L’umidità dell’aria, il grigio del cielo e persino il modo in cui i rami degli alberi si stagliavano contro le nuvole contribuivano a creare un’esperienza immersiva, quasi sensoriale. Non era solo la storia in sé a catturarmi, ma il modo in cui il luogo amplificava l’esperienza. Sentivo la tensione crescere con le descrizioni di Holmes e Watson, e ad ogni crepitio di un ramo o al movimento delle canne in riva al lago, mi sembrava di percepire l’ombra del mistero strisciare più vicina.

Questo è il tipo di momento che amo: quando un luogo, con la sua storia e le sue leggende non dette, si fonde perfettamente con la narrativa che sto esplorando. È un ricordo che vi racconta il perché sono così affascinata dal mistero e dal folklore: per la loro capacità di trasformare la realtà in qualcosa di più profondo, più enigmatico, e a volte, anche un po’ spaventoso. Forse è questa la magia che cerco in ogni libro e in ogni viaggio: la possibilità di essere trasportata, anche solo per un pomeriggio, in un mondo in cui il velo tra la realtà e la leggenda si assottiglia. E voi, avete un momento in cui un libro e un luogo si sono uniti in un’esperienza indimenticabile?

Alice Tonini

2 risposte a “Momenti Magici: Dove Fantasia e Luoghi Si Incontrano”

  1. Avatar sillydeliciouslyf76523c1d3
    sillydeliciouslyf76523c1d3

    Bello! Molto bello anche che tu abbia voluto condividerlo con noi, grazie davvero!

    Ora la mia memoria non mi aiuta a ricordare momenti di lettura particolari ma so che ci sono stati e in un momento tranquillo spero di ricordarli per poterteli raccontare.

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  2. Avatar valy71

    Il Lago di Molveno è bellissimo, lo conosco!!!
    Ricordo che un’estate, in vacanza in Calabria, a Santa Caterina dello Jonio, lessi I Promessi Sposi dalla prima all’ultima pagina e mi piacque tantissimo. Faticai un po’ nella parte della peste, ma fu una bella esperienza. La Prof. ssa di Italiano delle Superiori ce lo diede come compito, ma ne fui entusiasta. Un saluto 👋🏻

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Riscoprire Atlantide: Tra Mito e Verità #1

Lettori amanti dell’ignoto, aggrappatevi con forza al precario equilibrio della nostra nave. L’oscurità liquida ci avvolge, onde spettrali percuotono il legno con gemiti sordi, scuotendo la nostra fragile dimora sull’acqua in un’altalena sinistra. La vela silente pende inerte, mentre un vento gelido ulula litanie tra le sartie, spruzzando il nostro volto di un’umida essenza marina. Poi, un sussulto brutale, uno stridio agghiacciante, e la nostra prigione galleggiante si incaglia con un tonfo su una riva di sabbia che brilla di una luce innaturale. Avvolti nei nostri mantelli come in sudari, ci gettiamo nel silenzio denso, correndo a piedi nudi sulla sabbia che attutisce ogni suono. La nebbia, un sudario opaco, cela forme indistinte, sagome di dimore che appaiono e scompaiono come spettri. Senza esitazione, cerchiamo rifugio sotto le fronde di un albero che incombe, ignorando la sensazione di occhi invisibili che ci osservano nel buio. Ci guardiamo tra noi con sguardo smarrito. «Dove siamo?» Una donna avvolta in un mantello blu appare dalla nebbia. «Benvenuti ad Atlantide.»

L’eco di un’antica civiltà perduta, un’isola avvolta nel mito, risuona inquietante attraverso le ere, un’ombra romantica che infesta l’inconscio di molte culture. Si narra di una fioritura prodigiosa, un’esistenza idilliaca spezzata di netto dall’abbraccio insondabile dell’oceano. Sussurri ancestrali parlano di una terra intessuta di incantesimi e arcane dottrine, un isola i cui segreti esoterici giacciono ora inabissati, irrecuperabili. I suoi abitanti, un tempo baciati dalla fortuna, si dice fossero custodi di ricchezze inimmaginabili, di un potere arcano, di una saggezza che trascendeva la comprensione mortale, e di una felicità perfetta, in simbiosi inquietante con le forze primordiali. Il loro unico desiderio, una preghiera sussurrata al vento e alle onde, era di preservare quell’effimero paradiso, ignari delle oscure correnti che già serpeggiavano sotto la superficie del mare.

Ah, il sogno rincorso nei secoli di un’isola incantata, un rifugio dove la magia della natura danza senza la necessità di ingombranti marchingegni tecnologici, un luogo di eterna quiete… non è forse il custode dei nostri sogni più audaci e delle nostre fantasie più sfrenate? Questa leggenda si veste di nuovi nomi ad ogni sussurro del tempo: Shangri-La, Bali-hai, Brigadoon… ognuna di queste terre apre una finestra letteraria su quell’antico desiderio di pura gioia. In fondo, è un mito amico, un po’ dispettoso forse, che ci invita a curiosare tra le pieghe dei nostri limiti, a soppesare le nostre forze e debolezze di fronte a un’immagine di perfezione che, chissà, potrebbe non essere poi così irraggiungibile.

Questa storia di un’isola magica è davvero affascinante! Spunta da ogni angolo del mondo, dall’Atlantico al Pacifico, sussurrata tra le onde dell’Egeo e le misteriose correnti del Mar dei Sargassi… quasi ti fa venire il sospetto che un luogo del genere, o magari più d’uno, sia davvero esistito. Un paese avvolto in un’aura speciale, una civiltà svanita all’improvviso, lasciando dietro di sé non solo un vuoto, ma anche quel ricordo un po’ strano, quella sensazione di un posto meraviglioso e incantato che aleggia ancora nell’aria.

Un frammento di questa antica credenza serpeggia tra le pagine di un papiro egizio, gelosamente custodito a Leningrado. Narra la storia di un viaggiatore sfortunato, il cui cammino verso le miniere del faraone fu interrotto dalla furia del mare. Si ritrovò esule su una riva ignota, lambita da acque silenziose. Lì, una visione abbagliante lo attese: un drago dalle squame d’oro zecchino, la cui voce risuonò con un eco primordiale: «Questa è la dimora degli uomini beati, dove ogni anelito del cuore si materializza». La promessa di salvezza, di un ritorno al suo mondo, gli fu sussurrata come una dolce illusione. Ma l’ombra del drago si allungò sulle sue speranze con una rivelazione inquietante: quell’isola, scrigno di felicità, era votata all’oblio, destinata a sprofondare negli abissi marini, per non essere mai più rivista da occhi umani.

Un centinaio d’anni dopo, sempre lì in Egitto, circola un’altra storia affascinante, quella di Atlantide, raccontata dal saggio Platone. Verso il 335 avanti Cristo, egli mise nero su bianco una chiacchierata tra amici, Socrate, Crizia e Timeo. Lì si parlava di questo regno di Atlantide, a quei tempi sparito già da un pezzo. Solo che… c’è un piccolo dettaglio un po’ strano. Il protagonista di questo racconto non è uno qualsiasi, ma Solone, un antenato di Crizia, un tipo leggendario che era stato in Egitto più di un secolo prima. Quindi, è come ascoltare un’eco lontana, una storia raccontata da qualcuno che l’ha sentita in prima persona una testimonianza che ti fa venire la pelle d’oca, non trovi?

Immagina la scena: il saggio Solone chiacchiera amabilmente con i sacerdoti di Sais, una città antichissima sulle rive del Nilo. La conversazione scivola indietro nel tempo, ma ecco che i sacerdoti, con un sorriso un po’ enigmatico, prendono in giro Solone! Pare che la sua conoscenza della storia greca fosse un po’ lacunosa ai loro occhi. Loro, invece, con un velo di mistero nella voce, gli raccontano di una storia di Sais che affondava le radici in un passato lontanissimo, ben ottomila anni! E poi, la parte più intrigante: quei vecchi manoscritti di Sais conservavano il ricordo di una guerra remota, una battaglia tra gli antichi ateniesi e una civiltà potente che dimorava su un’isola nell’immensità dell’Atlantico.

«C’erano altre isole vicino a questa, » dicono i sacerdoti, «e al di la, oltre l’oceano, un grande continente. Questa isola, chiamata Poseidone o Atlantide, era governata da re, i quali, regnavano anche sulle terre vicine e possedevano la Libia, e alcune isole del mar Tirreno. Quando l’Europa fu invasa dalle armate di Atlantide, il coraggio di Atene, che era a capo della coalizione greca , salva la Grecia dal giogo degli invasori. Questi eventi precedettero di poco una terrificante catastrofe, un potente terremoto scosse la terra e violente pioggie incessanti la allagarono. Le truppe greche morirono, e Atlantide fu inghiottita dalle acque dell’ oceano.»

Questo è il passo tratto da Timeo, ma è nel ‘Crizia‘ che il velo si fa ancora più sottile, rivelando dettagli che agghiacciano l’anima. Si sussurra di un cataclisma, avvenuto ben 9600 anni prima che Platone narrasse la sua storia, che inghiottì Atlantide negli abissi. La descrizione di quel regno è un canto ammaliatore e sinistro: terre fertili che ora giacciono sotto onde oscure, foreste di alberi dalle forme aliene che ondeggiano nel silenzio del mare profondo, miniere sigillate per sempre, custodi di metalli e gemme scintillanti. E poi un metallo misterioso, descritto con un’ammirazione quasi sacrilega, lucente come oro ma intriso di proprietà arcane, che ora dorme disperso per sempre negli abissi, un ricordo inquietante di una magia perduta.

L’occultista inglese Anthony Roberts, nel suo inquietante saggio I giganti della terra, evoca passaggi da antichi testi, ombre che danzano su una verità proibita. Egli insinua che gli atlantidei, lungi dall’essere i saggi sovrani di un’utopia perduta, si abbandonarono a pratiche nefaste, cadendo in una spirale di magia nera così potente da condurli alla rovina. «E così furono distrutti dalla loro obbedienza ai poteri oscuri dello spirito del male», ammonisce Roberts, le cui parole risuonano come un presagio. Per lui, la leggenda di Atlantide non è un mero racconto per bambini, ma l’eco distante di una civiltà che realmente prosperò in un’era remota che precede di millenni la nascita di Cristo. Ma qui il velo si fa più fitto, il mistero più denso. «Quel che realmente fu non ha niente a che vedere con quello che gli studiosi classici intendono o capiscono.» Le loro ricostruzioni, Roberts suggerisce con un tono carico di sottintesi, sono solo deboli e tremolanti riflessi di una grandezza oscura e inimmaginabile. Cosa celavano realmente le immense città di Atlantide? Quali segreti giacciono sul fondo del mare protetti da abissi insondabili? La verità, secondo Roberts, è molto più inquietante di quanto osiamo immaginare.

Quasi tutti coloro che hanno osato interrogare l’enigma di Atlantide – da Platone fino agli oltre duemila volumi odierni che tentano di strappare il velo al suo ricordo – hanno affrontato l’incertezza: il racconto del filosofo greco era una finestra su un’era perduta, o solo un miraggio della mente? Figure avvolte nella penombra della storia, come Giamblico, Porfirio e Origine, si sono avvicinate al mistero, offrendo interpretazioni che, pur divergenti, sembrano convergere su un punto inquietante: un nucleo di verità sommersa giace sotto la superficie del mito. Ma poi, il confine si fa sfocato, le acque si intorbidano. Coloro che giunsero in epoche successive, parlarono attingendo solo ai labirinti della propria immaginazione, o scrutando riflessi distorti nello specchio dei desideri umani e delle leggende sedimentate come oscure alghe su una storia già di per sé ammaliante? Cosa si cela realmente dietro il fascino persistente di Atlantide? Forse, la verità è un’ombra sfuggente proveniente da profondità insondabili, che si beffa di ogni tentativo di essere afferrata.

Il problema serpeggia nell’ombra della stessa reputazione di Platone. La sua mente feconda diede alla luce verità cristalline e chimere effimere, intrecciandole con tale maestria da rendere labile il confine tra realtà e finzione. Non è forse inquietante immaginare che un intelletto così potente abbia potuto tessere una favola allegorica, un inganno elegante celato sotto la veste di un racconto antico? Forse, il nucleo originario della storia di Atlantide, intriso di verità dimenticate, fu plasmato dalle sue mani come cera fredda, modellato per servire una sua visione, un suo σκοπός oscuro. E se fosse così, quali verità inquietanti potrebbero celarsi dietro le modifiche del filosofo?

L.Sprague de Camp, nel suo libro Continenti perduti: Il tema di Atlantide nella storia, tra scienza e letteratura, arriva alla conclusione che: «Platone ha scritto si una storia affascinante, che ha avuto una grande e durevole influenza nella letteratura e nel pensiero occidentali, ma che ha poco a che spartire con la geologia, l’antropologia o la storia, delle quali sapeva poco o nulla.»

Per quasi un millennio, un lungo sonno avvolse la leggenda di Atlantide, quasi fosse un segreto sussurrato e poi dimenticato con il fruscio delle pagine del tempo. Ma poi, come un’antica eco che risuona inaspettatamente, il suo nome tornò a farsi strada, con una forza sorprendente, dopo la scoperta di nuove terre oltre l’oceano. Immagina, l’enigmatico John Dee, astrologo della potente regina Elisabetta I, un uomo che scrutava le stelle in cerca di risposte nascoste. Con un gesto audace che sfidava la logica e persino le parole di Platone, osò tracciare Atlantide là dove le mappe indicavano il Nuovo Mondo! Che visione misteriosa lo guidava? Quale segreto percepiva oltre l’orizzonte conosciuto? E non fu il solo a rimanere affascinato. Anche un pensatore del calibro di Francesco Bacone si immerse in queste speculazioni nascenti. Cosa avrà stuzzicato la sua mente brillante? Quali nuove domande si affacciavano sull’antica storia, ora che il mondo sembrava essere molto più vasto e pieno di possibilità di quanto si fosse mai immaginato? È come se la scoperta dell’America avesse riaperto un antico libro di misteri, invitando nuove generazioni a leggerne le righe nascoste. Non trovi anche tu che sia un risvolto davvero affascinante?

Tra i più appassionati cultori moderni della leggenda annoveriamo il deputato americano Ignatius Donnelly (1831-1901) che scrisse Atlantide: il mondo antidiluviano, un testo fortunatissimo che annovera più di cinquanta ristampe; Paul Schliemann, il nipote del leggendario archeologo, che si vantava di possedere oggetti provenienti da Atlantide ma non li mostrò mai a nessuno; James Curchward che scrisse non solo di Atlantide ma anche di altre due civiltà scomparse, Lemuria e Mu; Madame Helena Blavatsky che sostenne di avere esaminato, in una delle sue famose trance, un documento manoscritto su foglie di palma, proveniente da Atlantide; e infine, il filosofo esoterico Rudolf Steiner, che spiegò come gli abitanti di Atlantide avessero posseduto sia il potere magico delle parole, sia la forza vitale che permetteva loro di realizzare qualunque cosa.

Scrutando tra le pagine ingiallite del volume Continenti perduti di de Camp, si cela una verità tanto meticolosa quanto inquietante. In una delle sue appendici, come in un catalogo di un sapere proibito, vengono elencati ben 215 nomi. Duecentoquindici menti che, nel corso dei secoli, hanno fissato il vuoto lasciato da Atlantide, tentando di riempirlo con le proprie teorie. Accanto a ciascun nome, una data, un riferimento ad un’epoca in cui l’enigma tormentava la coscienza umana. Ma è proprio questa precisione a incutere un brivido. Cosa ha spinto de Camp a compilare un simile elenco, quasi un necrologio di speranze perdute? E cosa si cela dietro questa moltitudine di interpretazioni, questa febbrile ricerca di un’isola fantasma? Non è forse inquietante pensare a così tante menti, attraverso i secoli, sono state attratte da questo abisso di mistero, ognuna convinta di averne carpito il segreto, indicando un punto diverso sulla mappa del mondo? Sembra quasi che Atlantide non sia solo un luogo perduto, ma un’ossessione contagiosa, un fantasma che infesta la mente di chiunque osi avvicinarsi troppo al suo ricordo.

«Forse», suggerisce de Camp, «l’improbabilità di Atlantide è la ragione stessa del suo fascino. È una forma di escapismo; la vaghezza della leggenda permette al commentatore di giocare con le supposizioni come un bimbo gioca con il Lego.»

Le ipotesi che oggi serpeggiano attorno al destino di Atlantide sembrano danzare attorno alle parole di Platone. La sua lapidaria affermazione di una catastrofe avvenuta diecimila anni prima della sua venuta al mondo viene liquidata come un “malinteso”, un “errore di trascrizione”. Gli studiosi contemporanei, con una sicurezza che a tratti inquieta, suggeriscono una data ben più vicina, un’eco di soli milleduecento anni che li separa dal grande filosofo. Ma in questo tentativo di razionalizzare l’abisso temporale, non si cela forse un mistero ancora più profondo? Un’ombra di anacronismo sembra effettivamente allungarsi sui diecimila anni di Platone: le nazioni più antiche d’Europa, Grecia inclusa, non riescono a dipanare la trama della loro storia oltre un orizzonte di tremilacinquecento anni. Perfino le memorie incise nella pietra degli egizi e dei sumeri, se si ignorano gli enigmatici annali dei sacerdoti di Sais, si perdono in un passato di poco più di cinquemila anni. Allora, da dove emerge questa cifra vertiginosa, questi diecimila anni che sfidano la cronologia conosciuta? È forse un indizio di un’antichità ancora più remota, un’eco di civiltà dimenticate che precedono persino le prime luci della storia che conosciamo? O Platone, depositario di segreti ancora più antichi, ci ha lasciato un enigma temporale la cui vera portata ci sfugge ancora? Questa discrepanza, lungi dall’essere un semplice errore, potrebbe celare la chiave per svelare misteri ancora più oscuri sulle origini di Atlantide e sul suo vero posto nel flusso del tempo.

Amici lettori, mentre ci congediamo per ora, lasciate che un brivido di mistero vi accarezzi la mente. Questo che avete letto è solo il primo sguardo nell’abisso del mito di Atlantide. Abbiamo sondato le incerte profondità del tempo, cercando di ancorare questa leggendaria civiltà in un’epoca precisa. Ma ora, una nuova domanda emerge dalle nebbie del passato, un interrogativo che ci spinge ancora più nel cuore dell’enigma: il luogo. Dove giacevano le sue magnifiche coste? Quali segreti custodiscono gli abissi che un tempo la videro prosperare? Il nostro viaggio, cari esploratori dell’ignoto, è tutt’altro che concluso. Non temete, insieme ci immergeremo ancora più a fondo, scrutando le mappe antiche e le speculazioni moderne per tentare di localizzare quel paradiso perduto, quel regno sommerso che continua ad affascinare e inquietare la nostra immaginazione. Rimanete con noi, perché il mistero di dove Atlantide si celasse è un’avventura che non vediamo l’ora di condividere con voi. E chissà quali oscure meraviglie attendono di essere rivelate?

Alice Tonini

2 risposte a “Riscoprire Atlantide: Tra Mito e Verità #1”

  1. Avatar sillydeliciouslyf76523c1d3
    sillydeliciouslyf76523c1d3

    Bellissimo viaggio alla ricerca della verità su Atlantide. Io rimango convinta si trattasse di astronavi e uomini venuti dallo spazio. Vedremo cosa dice il tuo prossimo articolo. Ciao! Brava!

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  2. Avatar La Magia e i Miti Europei: Un Viaggio Intrigante🚀 | Alice Tonini

    […] ripartiti con la sensazione di aver toccato, anche solo per un minuto, la magia delle leggende. Riscoprire Atlantide: Tra Mito e Verità #1, Civiltà Scomparse: Il Fascino di […]

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La Magia della Medicina Antica a Kos #2

Lettori dell’ ignoto riprendiamo la nostra passeggiata a Kos, alla ricerca della magia che nell’antichità si nascondeva nella medicina.

Il maestro, che si dice sia vissuto fino a 109 anni, nella prefazione alla sua maggiore opera sull’arte medica scrisse: « Nessuno può raggiungere la perfezione in quest’ arte, perché la nostra vita è troppo breve, mentre l’arte medica è lunga da appendere e piena di difficoltà.»

I suoi consigli avevano la forma di brevi aforismi che denotavano non solo molto buon senso, ma anche una notevole conoscenza della psicologia; prima, ovviamente, che lo stesso concetto di psicologia venisse formulato. I suoi aforismi, con annotazioni e aggiunte successive di medici greci e romani come Discoride, un medico militare greco del I secolo a.C., e Galeno che visse nel II secolo d.C., furono tradotti e pubblicati in Inghilterra, nel 1708, dal dottore C.J.Sprengell, che nell’introduzione scrive: «Questo libro mi è costato molto sia di lavoro, sia di spese, ma tutto questo sarà insignificante in considerazione della soddisfazione che ne trarrò se il lettore ne otterrà vantaggio.»

Il libro, un bel volume con le effe al posto delle esse, come si faceva a quei tempi, cita parecchi argomenti trattati da Ippocrate, dal latte (“non si dovrebbe dare latte a chi ha problemi di mal di testa o ha la febbre”), alla tristezza e i suoi effetti: «Ci sono persone che sono tristi e piene di paure, ma per un breve periodo di tempo e per determinati motivi. Quelli che invece, lo sono senza una ragione apparente possiedono sangue denso e pesante, non sudano e hanno le loro funzioni animali in disordine. Per loro, il solo intervento possibile è una lobotomia al momento giusto, o un vomito ben preparato».

Ippocrate credeva profondamente nell’equilibrio del corpo. Se una persona stava male per avere mangiato troppo bisognava che liberasse l’intestino. «Qualunque malattia causata dalla sazietà, va curata con l’evaquazione.» Come molti medici del suo tempo, era favorevole alle purghe e agli emetici che liberassero il corpo dal cibo avariato o in eccesso. Ma raccomandava anche: «I corpi che non riescono a purgarsi devono, prima di prendere dell’elleboro, prepararsi a quest’erba con una dieta abbondante, liquido e con molto riposo. Perchè se l’elleboro, o un altro forte emetico, viene assunto a stomaco vuoto, o con il corpo riscaldato da qualche esercizio o altro, può provocare forte irritazione, causare convulsioni o addirittura la morte. Casi del genere se ne sono verificati e non pochi!»

Sono esigue, purtroppo, le annotazioni lasciate dal filosofo che fanno riferimento a erbe medicinali specifiche, come l’elleboro, il cui fiore bianco, velenoso, viene usato sia come sedativo che come tranquillante. Dagli scritti dei suoi colleghi però possiamo fare qualche seria ipotesi, almeno su alcune delle erbe che era solito usare.

L’erbario di Discoride tradotto in inglese da John Goodyear nel XVII secolo, è una guida completa alle erbe medicinali che sono tuttora in uso. Mentre un libro contemporaneo: Erbe di Grecia di Alto Dodds Niebuhr riporta numerose citazioni di Discoride, come per esempio nel caso dell’ortica romana (Urtica pilulifera), una pianta erbacea a stelo lungo che può raggiungere anche l’altezza di un metro. Il suo nome greco è tsuknes e Discoride dice di lei:«Le foglie macerate con piccoli crostacei ammorbidiscono la pancia, eliminano l’aria interna e smuovono l’urina.»

Un’altra pianta molto utilizzata nei tempi antichi, e quasi certamente anche al tempo di Ippocrate, era la pianta verde gialla della ruta (Ruta graveolens) quella a cui Shakespeare faceva riferimento come “erba della grazia.” Può diventare alta anche mezzo metro e si raccoglie prevalentemente nei mesi di maggio e giugno e nonostante la sua puzza veniva usata nelle insalate. Per gli antichi era valida soprattutto perchè il suo odore teneva lontani gli insetti di ogni tipo e la si metteva a fasci nei cortili delle case. Il suo nome greco è apigheros ed è con quel nome che Discoride la cita come erba che: «se masticata fa sparire i cattivi odori che vengono dalla cipolla e dall’ aglio.» La raccomanda inoltre per «causare lo scorrere del mestruo.»

L’erba più conosciuta, naturalmente era quella che i romani chiamavano Conium maculatum, i greci amaranghas e noi cicuta. È una pianta biennale, con radici e fiori bianchi, e macchie viola sul gambo vuoto. È il veleno che uccise Socrate.

Nel corso della sua vita Ippocrate fece molti viaggi all’ estero per accrescere le sue conoscenze, ma poi ritornava a Kos dove una volta, dei rivali gelosi tentarono di bruciargli l’ospedale, incolpandolo. Ma lui era troppo stimato nella sua isola.

Nel secolo scorso, gli archeologi hanno scoperto a Kos i resti di un ospedale antecendene l’Asclepieon che risalgono al 336 a.C., ma l’ultimo rudere conservatosi venne distrutto da un terremoto molti secoli più tardi, nel 554 d.C. Oggi il luogo è circondato da bellissimi cipressi e da quello che doveva essere un parco sacro con sorgenti che portano tracce di zolfo e di calcio, sostanze già allora usate per molte cure.

Forse il monumento più bello al padre della medicina è l’immenso platano che porta il suo nome e che si estende con i suoi rami sopra la piccola piazza chiamata Plateia Platanos. L’albero che in inverno sembra senza vita domina l’antica sorgente le cui fresche acque rinnovano ogni anno il suo vigore, permettendogli così di formare con le sue foglie una cupola d’ombra sull’area circostante. Si dice che proprio sotto questo antico albero Ippocrate sedesse ed esponesse a quanti erano disposti ad ascoltarlo le sue teorie sulla medicina.

Proprio sotto questo platano termina la nostra passeggiata. Il nostro viaggio tra il mistero e l’ignoto però è appena iniziato quindi ci troviamo al porto e prendiamo la prima nave per……..il luogo più misterioso e ignoto per antonomasia. Restate connessi, ci leggiamo prestissimo.

Alice Tonini

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Kos: Il Luogo di Nascita della Medicina Moderna #1🚑

Lettori del mistero e dell’ ignoto finalmente il nostro traghetto è approdato nel porto di Kos, splendida isola dal mare cristallino e dalle spiagge sabbiose. E voi mi chiederete: cosa siamo venuti qui a fare? Semplice, non tutti sanno che a Kos affonda le sua antiche radici la moderna medicina.

La natura cura tutte le malattie.” Non so se l’avete riconosciuta ma questa era la massima di Ippocrate, padre della medicina moderna che dopo un secolo praticava ancora l’arte di Pitagora e poneva le basi di una nuova filosofia che come la precedente durerà molto a lungo. Questo avveniva a Kos, a pochi chilometri dall’ isola di Samo.

Ippocrate fu il primo uomo a portare avanti lo studio completo del corpo umano come sistema, definì molte delle regole scientifiche basilari che tutt’ora governano la medicina e formulò quello che oggi è conosciuto come Giuramento di Ippocrate che ancora oggi è accettato dai medici di tutto il mondo. Diceva:

Io giuro in nome di Apollo il curatore, di Esculapio dio che risana, in nome della Salute, della Panacea e di tutti gli dei e le dee, e faccio loro miei testimoni, di quanto io farò, secondo le mie capacità e il mio giudizio. […]

Ippocrate

Kos è una delle più belle isole delle Grecia e al pari di Samo mi permette di offrirvi un ottimo calice di vino locale. A differenza di Samo dove Pitagora passa inosservato, Ippocrate a Kos è ricordato e l’Asclepieon, l’ospedale dove praticava, può ancora essere visitato; si trova in cima a una collina a meno di quattro chilometri a est dalla città. Ovviamente possiamo passeggiare solamente tra le rovine ma visto che Ippocrate sosteneva che quello che ci circonda, l’ambiente, è importante quanto la cura del corpo sono sicura che la salita verso la collina e la vista del meraviglioso paesaggio per noi saranno un vero toccasana.

Secondo la testimonianza di Pausania nell’Asclepieon era proibito morire e partorire, e il luogo è reso ancora più sacro dalla presenza di un tempio dedicato al dio Apollo, i cui resti sono datati in epoca romana. Comunque Kos possiede numerosissime rovine romane, la maggior parte situate nel bosco che circonda la città portuale e sono così belle da meritare un giorno in più di permanenza solo per visitarle. Volendo da Kos si può raggiungere anche la Turchia con i traghetti e se proprio non volete farvi mancare le comodità dell’era moderna c’è anche un aeroporto.

Ma facciamo un passo indietro. Prima di Ippocrate, nato a Kos nel 460 a.C., anno dell’ottantesima Olimpiade, la pratica della medicina era un misto di tentativi, azzardi, superstizioni e preghiere. Quando fortunatamente si riusciva a guarire, secondo le credenze popolari il medico aveva operato una magia; dopo Ippocrate agli incantesimi si aggiunsero formule codificate ed esperienza documentata. A ciò si deve la sua fama: pratica medica e scrupolosa documentazione di lavoro ed esperimenti. Tutti i più grandi autori dell’ antica Grecia Sofocle, Euripide, Platone, Aristotele e lo stesso Socrate hanno omaggiato la sua opera in quanto lo ritenevano loro pari.

Come Pitagora, per dodici anni viaggiò per il mondo e visitò Europa, Asia e Africa incontrando chiunque fosse in grado di accrescere la sua conoscenza dell’ arte medica. A Mileto discusse con il filosofo Anassagora (500-428 a.C.) di sostanza e infinito e riuscì a correlare i cicli della salute dell’ uomo con l’ambiente naturale che lo circondava. Tramite lo studio dei papiri lasciati da Eraclito nel VI secolo a.C., impara che:

Nulla in questo mondo resta uguale a sè stesso, nemmeno per un attimo.
Tutto si modifica, tutto si dissolve, si mescola con altri elementi, per assumere un aspetto, diverso dal precedente.

Ippocrate

Ma fu durante il suo viaggio a Samo che ebbe la conferma della sua teoria più profonda: non è possibile ignorare la condizione psichica di un paziente quando si cura il corpo, perché il corpo e l’anima sono una cosa sola e come tali vanno curati. Prima dell’avvento di Ippocrate, la pratica della medicina era per la maggiore una primitiva forma di magia, una combinazione di parole e incantesimi per esorcizzare gli spiriti maligni che si pensava causassero la malattia. Alcuni disturbi erano considerati sacri e Ippocrate commentò : non credo che la Malattia Sacra sia più sacra, o più divina di altre malattie. Al contrario ha una causa precisa e caratteristiche specifiche.

https://youtu.be/TxohVBPvt9c (Qui trovate il porto di Kos in diretta live, fatemi sapere nei commenti se la Webcam non dovesse essere più in funzione)

Anche in quei tempi esistevano medici con lo scopo di estorcere soldi ai pazienti, in un trattato del periodo post aristotelico si suggerisce ai dottori di non parlare di compensi con i malati perché ciò avrebbe causato ansia e peggiorato la condizione. Forse è per questo motivo che oggi l’ansia è tanto diffusa…

Nel 430 a.C. Ippocrate arriva ad Atene nel bel mezzo di una carestia e di una epidemia causate dalla guerra nel Peloponneso contro gli spartiani iniziata l’anno precedente. Qui studia gli effetti dell’affollamento urbano che affliggono la città e che facilitano l’espandersi delle malattie: i corpi infettati lasciati senza cura e l’ acqua inquinata bevuta da tutti. Riuscì a debellare l’ epidemia con misure severe come la segregazione degli ammalati, i corpi dei morti bruciati su pire, acqua bollita prima di essere bevuta. Non riuscì purtroppo a salvare Pericle, il grande statista ateniese che lo aveva chiamato in aiuto.

Poi tornò a Kos per occuparsi del suo centro medico, l’Asclepieon che diventò uno dei migliori ospedali dell’ epoca e alle cure mistiche si aggiunsero misure più pratiche.

Caro lettore dell’ignoto per ora ti devo salutare, ti lascio continuare la passeggiata per Kos da solo ma ci rivedremo molto presto. Alla prossima e buona lettura.

Alice Tonini

3 risposte a “Kos: Il Luogo di Nascita della Medicina Moderna #1🚑”

  1. Avatar sillydeliciouslyf76523c1d3
    sillydeliciouslyf76523c1d3

    Bello! Bello! Bello! Grazie!

    Piace a 1 persona

  2. Avatar luisa zambrotta

    Grazie per questo post affascinante!

    Piace a 1 persona

  3. Avatar La Magia e i Miti Europei: Un Viaggio Intrigante🚀 | Alice Tonini

    […] Ci siamo quindi aggirati per l’isola alla ricerca delle tracce di questa antica sapienza. Kos: Il Luogo di Nascita della Medicina Moderna #1🚑, La Magia della Medicina Antica a Kos #2. Lascio giudicare a voi quello che abbiamo trovato, io mi […]

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