Lettori, compagni di viaggio nel regno del mistero e dell’ignoto, bentornati tra le nebbie del tempo, lì dove risuona il nome di Atlantide. Non è solo una terra perduta, ma un sussurro affascinante che attraversa i millenni, un enigma le cui spire attorcigliano la storia e la fantasia, lasciando dietro di sé solo domande senza risposta. Dove si celava questa civiltà così avanzata da svanire nel nulla? E quando, esattamente, il suo fulgore si spense? Le teorie si rincorrono come ombre in un labirinto, tessendo trame complesse tra epoche remote e luoghi inesplorati. Eppure, tra le innumerevoli ipotesi che danzano sul filo del rasoio, ve n’è una che con insistenza ci riporta alle radici stesse della leggenda: che Atlantide non sia altro che l’eco distorta di antiche calamità naturali che sconvolsero le coste della Grecia, trasformando la memoria di un disastro in un mito immortale. Ma siamo sicuri che sia solo questo? Il mistero di Atlantide continua a pulsare, un cuore antico nel petto dell’ignoto.
Il vero enigma di Atlantide non risiede solo nel suo quando, ma anche nel suo dove. Dobbiamo osare spingerci oltre le certezze, sfidare le mappe conosciute per esplorare terre ignote. Platone, con la sua ineguagliabile perspicacia, la collocò senza mezzi termini a occidente delle mitiche Colonne d’Ercole, il nostro stretto di Gibilterra, suggerendo così un’esistenza celata da qualche parte nell’immensità dell’Oceano Atlantico. Un’ipotesi, tra le più affascinanti, la colloca nel cuore pulsante del Mare dei Sargassi, dove alghe galleggianti si intrecciano in un sudario verde. Si dice che dopo l’inabissamento della grande isola, quelle acque divennero impraticabili, un cimitero liquido di vite perdute. Forse un monito arcano che ancora oggi ci sussurra la verità sull’ubicazione di un impero inghiottito dagli abissi.

Ma l’assenza di rovine sommerse a occidente di Gibilterra, non è forse essa stessa un enigma? Un silenzio che ci sfida a guardare oltre, a non accettare risposte troppo facili. È proprio questa inquietante mancanza di tracce a spingere alcuni storici contemporanei a deviare lo sguardo e a volgerlo verso orizzonti inattesi. E così, l’attenzione si sposta a est, verso un’altra isola, avvolta nel mito e nella storia: la greca Santorini. Un luogo che porta incisa nella sua roccia la memoria di eruzioni vulcaniche devastanti, un’ira della terra che si è scatenata ciclicamente, l’ultima volta appena qualche mese fa. E se il mito di Atlantide, anziché sprofondare nell’Atlantico, fosse in realtà il ricordo di un cataclisma avvenuto nel cuore dell’Egeo, un’esplosione tanto violenta da riscrivere la geografia e generare una leggenda senza tempo? Il vero mistero, forse, è non volersi arrendere alle apparenze.
Tremilacinquecento anni fa, in un giorno che l’oblio ha cercato di inghiottire e che non viene nemmeno ricordato nei libri di storia, attorno al 1520 a.C., la terra stessa si squarciò. L’intero cuore dell’isola di Santorini, un’area di ben 60 chilometri quadrati, precipitò nell’abisso marino in un istante terrificante. Quell’evento titanico non solo scagliò una coltre di cenere vulcanica spessa oltre 30 metri su quella che allora era conosciuta come Thera, seppellendola sotto un sudario grigio, ma generò anche un’onda colossale. Un’onda di distruzione che, con la sua furia inarrestabile, si riversò su Creta, a poco più di cento chilometri di distanza, sommergendo ogni cosa. E se invece di Santorini fosse proprio quella Creta, con la sua civiltà minoica che fioriva attorno alla maestosa Cnosso, la vera Atlantide?
Per comprendere la portata di quel cataclisma che inghiottì Santorini, dobbiamo volgere lo sguardo a un altro orrore eruttivo, un’eco di distruzione di cui abbiamo maggiori testimonianze. Parliamo dell’eruzione di Krakatoa del 1883, tra Giava e Sumatra, un evento che squarciò il velo della normalità e riscrisse il significato stesso di “disastro”. Immaginate: la cenere vulcanica non si limitò a oscurare il cielo, ma si spinse fino alla stratosfera, viaggiando con i venti più lontani, fino a lambire le coste dell’Europa. Per quasi 200 chilometri intorno al vulcano, il giorno si tramutò in una notte innaturale, densa e opprimente. E il rumore… oh, il rumore! Il più assordante mai registrato nella storia umana, un boato così potente da essere udito fin oltre 3.500 chilometri di distanza, fino alle spiagge lontane dell’Australia. Se la natura può scatenare una tale furia, non è difficile credere che un evento simile abbia potuto generare non solo distruzione, ma anche leggende immortali, racconti di mondi perduti che ancora oggi ci affascinano e ci tormentano.
Eppure, persino la furia inaudita di Krakatoa impallidisce di fronte a ciò che accadde a Thera. Gli storici raccontano che l’intensità di quell’eruzione primordiale, avvenuta ben 3.500 anni fa, fosse meno della metà di quella del cataclisma greco. Immaginate la potenza che distrusse quell’isola. Per cogliere la vera scala di quell’evento, basta osservare l’immensa cicatrice che ancora oggi squarcia il paesaggio: un gigantesco cratere, trasformato in una baia profonda, che separa Santorini dalle piccole isole circostanti. Un tempo, tutte queste terre erano un’unica massa, un unico corpo. Ora, quel vuoto azzurro testimonia la violenza inimmaginabile che le ha separate, scolpendo per sempre nel mare e nella memoria il ricordo di un’apocalisse che potrebbe aver dato origine al mito di Atlantide.

Santorini, l’isola che oggi emerge dalle acque, è un luogo di una bellezza singolare e, a ben guardare, profondamente inquietante. Il traghetto che giunge dal Pireo, sulla rotta per Creta, non attracca in un porto qualunque, ma si insinua sotto imponenti faraglioni neri, scoscesi e minacciosi. Lì, una strada a zig-zag, quasi verticale, si arrampica vertiginosamente verso l’alto, come una cicatrice sulla pelle della montagna. In cima a questa ascesa mozzafiato, si trova il delizioso Hotel Atlantis, un nome che non può che risuonare con un’eco sinistra, quasi profetica. Da qui, lo sguardo si perde sulla baia profonda, uno specchio d’acqua che, in realtà, è la bocca aperta di un vulcano immenso e non ancora sopito, un gigante addormentato che respira sotto la superficie. La stessa strada che conduce al porto porta il nome di Spyros Marinatos, un archeologo che dedicò la sua vita a svelare i segreti di quest’isola. I suoi scavi, in particolare nel villaggio abbandonato di Akrotiri, una Pompei dell’Egeo sepolta dalle ceneri, lo condussero a una convinzione sconvolgente: che quella fiorente colonia minoica, scomparsa nel cataclisma, fosse in realtà la scintilla, il seme dal quale germogliò la leggenda immortale di Atlantide. E se fosse proprio qui, sotto i nostri occhi, che il confine tra storia e mito si dissolve?
“Gli egizi hanno sicuramente avuto notizia dello sprofondamento di un isola che allora si chiamava Thera, e oggi Santorino, ma non sapevano che si trattava di un isola piccola e relativamente poco importante. E il terribile evento lo trasferirono invece alla vicina Ceta, l’isola così gravemente colpita e con la quale persero improvvisamente ogni contatto. E la leggenda di un intera armata inghiottita derivò dalla notizia della perdita di migliaia di persone. Con la mancanza di logica e di consequenzialità tipica delle leggende e dei miti, lo stesso Platone non fece caso all’ impossibilità che Atlantide nell’ oceano Atlantico e l’ armata ateniese, naturalmente ad Atene, siano affondate insieme e contemporaneamente.» S. Marinatos.
Tra le incredibili scoperte fatte nella città sepolta di Akrotiri ci sono i resti di una stupenda pittura murale di circa 3×4 metri, nella quale si possono ammirare 6 ninfe che offrono fiori a una dea dai seni nudi con un pavone a fianco. Il pavone era sacro a Era, dea dell’ Olimpo moglie e sorella di Zeus, alla quale era stato dedicato un magnifico tempio sull’isola di Samo. L’ affresco ora è stato portato al museo Bizantino di Atene. Il professore Marinatos rimase anche un po’ confuso dalla mancanza di vita che i suoi studi rivelavano. «Non abbiamo trovato neanche uno scheletro,» disse, «nonostante noi sappiamo che migliaia di persone devono essere morte a causa del terremoto e delle eruzioni vulcaniche.»
Come già visto in precedenza nel 1500 a.C., un’ombra si allungò su Creta. Un cataclisma, di proporzioni inaudite, inghiottì la fiorente civiltà minoica, fino ad allora fulcro di commerci e scambi con l’Egitto. Senza un apparente motivo, la loro avanzata cultura svanì nel nulla, lasciando dietro di sé solo silenzi e rovine. Fu allora che Amenofi III, il faraone d’Egitto, distolse lo sguardo dall’isola perduta per stringere nuove, inattese alleanze con Micene, nel Peloponneso. Da quel momento, Creta, un tempo faro del Mediterraneo, fu condannata all’oblio, cancellata dalle pagine della storia. Cosa accadde realmente? Il mare inghiottì i suoi segreti, o fu qualcosa di più sinistro a sigillare il destino dei Minoici?
Le testimonianze dei contatti tra Creta e l’Egitto risuonano ancora tra le rovine di Cnosso, e raccontano storie di un’era dimenticata. Poco fuori Candia, l’attuale capitale, sorge una ricostruzione che quasi commuove, opera di Sir Arthur Evans, l’archeologo inglese che all’inizio del secolo dedicò la sua fortuna a riportare in vita un frammento dell’antica Creta. Ma in questo luogo di apparente tranquillità, tra due dolci colline, si cela un’ombra. Qui regnò Minosse, il re il cui nome è indissolubilmente legato alla leggenda più inquietante dell’isola: quella del Minotauro. Una creatura metà uomo e metà bestia, imprigionata in un labirinto così intricato da sembrare vivo, un abisso di pietra dove ogni anno venivano sacrificate sette giovani donne e sette giovani uomini. Un tributo di sangue che macchiava l’opulenza del suo regno. Questo labirinto primordiale, potrebbe aver ispirato le tortuose vie piastrellate che i cristiani medievali percorrevano in ginocchio nelle loro chiese. Il mistero di Creta è un velo che ancora oggi attende di essere sollevato. «Il labirinto » dice uno scrittore di inizio secolo scorso, «così facile da entrarci e così difficile se non impossibile da uscirci è chiaramente il simbolo della vita umana.»
Mentre gli scavi di Sir Arthur Evans si addentravano nel cuore di Cnosso, la terra stessa sembrò fremere. Un lieve terremoto scosse il sito, innocuo nelle sue conseguenze, eppure sufficiente a risvegliare un’antica credenza. Fu un brivido che ricordò a tutti la convinzione minoica: i tremori della terra erano causati da una divinità ctonia, un gigantesco toro le cui corna possenti scuotevano le fondamenta del mondo. Non è un caso che persino Omero, secoli dopo, attribuisse a Poseidone l’epiteto di “scuotitore della terra”.
Creta: la più vasta delle isole greche, e forse la più enigmatica, custodisce segreti sepolti nel tempo. I suoi abitanti, un popolo di tempra indomita e spirito fiero, portano ancora i segni di un passato duro. Nelle remote vette montane, dove l’aria si fa più sottile e il paesaggio più aspro, si incontrano ancora figure avvolte negli antichi costumi neri, con stivali alti. Un ricordo di questo indomito vigore, di questa viscerale indipendenza, può essere colta nelle parole del più celebre cantore di Creta, Nikos Kazantzakis. La sua opera più nota, il bestseller “Zorba il Greco“, affonda le radici proprio in questa terra misteriosa, dove lo scrittore visse e, infine, trovò la quiete eterna.
Candia, l’ombra silenziosa che veglia su Cnosso, fu in tempi antichi il suo battello d’accesso al mondo. Nel IX secolo, un’ondata araba la trasformò, erigendo un forte che ne sigillò la nascente importanza, un baluardo di misteri e conquiste. Poi vennero i Veneziani, le cui impronte sbiadite ancora si intravedono, seguirono i Turchi, lasciando anch’essi le loro enigmatiche tracce. Oggi, con le sue 70.000 anime, Candia si presenta con un velo di apparente tranquillità, un crocevia cosmopolita dove il tempo sembra essersi fermato. I visitatori, incantati, si perdono tra i tavolini dei caffè all’aperto, ipnotizzati dal sussurro della fontana seicentesca che domina la piazza principale. Ma sotto questa patina di calma, si annidano segreti più profondi. Qui, in un luogo non lontano, nacque El Greco (1541-1614), le cui visioni contorte sembrano ancora aleggiare nell’aria. E qui, tra le mura antiche, riposa per l’eternità Nikos Kazantzakis (1885-1957), il cui spirito inquieto continua a sussurrare storie di un’isola senza tempo. Ogni giorno, i traghetti dal Pireo approdano, portando nuovi volti a interrogare i suoi enigmi.
Eppure l’enigma persiste. Se Atlantide è più di un sussurro del vento, se davvero le sue rovine giacciono sepolte nelle profondità della Grecia, allora non fu che una tra le innumerevoli civiltà inghiottite dall’oblio. Un’altra tessera in un mosaico di scomparse, un’altra eco nel coro silenzioso di ciò che fu e non è più.
Atlantide, per molti, non è solo una leggenda, ma la metafora di una terra scomparsa da un tempo immemorabile, un’entità avvolta nel mistero che, chissà, potrebbe un giorno riemergere dalle profondità. Questa fascinazione per civiltà perdute non è un fenomeno isolato; echi di storie simili risuonano in ogni angolo del mondo. Basti pensare alla leggenda della Terra Perduta della Leonessa o la mitica Avalon al largo delle coste della Cornovaglia, dove si narra che il popolo di Re Artù sia svanito dopo la sua ultima, fatale battaglia.
Nel XVII secolo lo storico William Camden annota che i pescatori al largo delle coste britanniche di quella zona portavano continuamente a galla, nelle reti, pezzi di muratura e nell’area attorno alle isole Scilly, durante la bassa marea, era possibile vedere antiche mura di difesa.
Tuttavia, inquietanti discordanze gettano ombre su queste affascinanti teorie. I geologi sostengono che i maggiori cedimenti di terreno lungo l’instabile margine atlantico – una regione tormentata dall’attività vulcanica – si siano verificati molto prima dell’Età del Bronzo (2000 a.C.), lontano dall’epoca di Re Artù, solitamente collocata attorno al 500 d.C. Eppure, il mistero si infittisce: erosioni e inabissamenti continuano ancora oggi, e innumerevoli isole vulcaniche compaiono e svaniscono dagli oceani con una regolarità quasi spettrale. Datazioni esatte rimangono un miraggio, lasciandoci solo con ipotesi frammentarie. I geologi suggeriscono che le isole britanniche fossero connesse all’Europa continentale ben 8000-9000 anni prima dell’era cristiana. Queste cifre, così distanti dalle leggende, complicano il quadro, ma non lo dissolvono. Anzi, forse lo rendono più intrigante.

Molto bene viaggiatori, è venuto il momento di ripartire dalle coste di Atlantide. La nostra fidata barca ci aspetta paziente per continuare la nostra ricerca della magia e per tornare ai nostri tempi. Altri luoghi misteriosi ci aspettano.
Alice Tonini
Una replica a “Civiltà Scomparse: Il Fascino di Atlantide #2”
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[…] ●Ci siamo persi, la navigazione è stata particolarmente difficile e siamo finiti sulle spiagge di Atlantide. Isola perduta tra le nebbie del tempo abbiamo provato a capire dove si trovasse e chi fossero gli abitanti. Purtroppo trovare una risposta è stato difficile, abbiamo potuto fare solo ipotesi ma siamo ripartiti con la sensazione di aver toccato, anche solo per un minuto, la magia delle leggende. Riscoprire Atlantide: Tra Mito e Verità #1, Civiltà Scomparse: Il Fascino di Atlantide #2 […]
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