Riti di lettura invernale: storie che affrontano l’oscurità 🕯

Cari lettori del mistero e dell’ignoto, l’autunno è la stagione dei segreti che emergono, ma l’Inverno è la stagione dell’isolamento, dove le ombre si fanno più lunghe e i confini tra il reale e il soprannaturale si assottigliano.Quando il gelo sigilla le finestre e la neve attutisce ogni rumore esterno, la casa diventa un fortino fragile contro le forze esterne. È il momento ideale per accendere una candela, preparare la vostra tazza di tè o caffè rituale, e avventurarvi nelle storie che usano il buio e il freddo come veri e propri personaggi.

Vi propongo tre classici la cui lettura sotto il gelo non è solo consigliata, ma è un vero e proprio rito di iniziazione all’oscurità invernale.

1. Il Canto di Natale di Charles Dickens. Sappiamo tutti della conversione del vecchio e avaro Ebenezer Scrooge, ma troppo spesso dimentichiamo che A Christmas Carol (1843) è in realtà una storia di fantasmi potentissima e inquietante. Dickens non usa la dolcezza, ma la paura per scuotere l’anima del protagonista. È una Ghost Story di Natale, dove l’isolamento di Scrooge è squarciato da tre spiriti che non sono entità benevole, ma messaggeri ctonii, che lo costringono a confrontarsi con le ombre del suo passato, presente e futuro. Il mistero invernale: la nebbia che avvolge Londra, l’ufficio freddo come una tomba, e le apparizioni che infrangono la logica. Leggere Dickens in Dicembre significa partecipare a un rito di purificazione attraverso l’horror, ricordandoci che il vero gelo risiede nei cuori.

2. Le storie di M.R. James. Se amate i misteri che puzzano di pergamena antica e di conoscenza proibita, dovete recuperare le Ghost Stories di Montague Rhodes James (fine XIX, inizio XX secolo). James, un accademico e medievista, ambientava spesso i suoi racconti in tranquille biblioteche o chiese sferzate dal vento. Le sue storie non si basano sul sangue, ma su un orrore sottile e intellettuale. Personaggi che scoprono per caso manoscritti maledetti, che risvegliano entità spaventose, o che si imbattono in oggetti rituali di un passato dimenticato. Il freddo e il vento di Dicembre sono il perfetto accompagnamento per i suoi racconti, dove il silenzio dell’inverno permette ai sussurri degli antichi spiriti di raggiungere l’orecchio del lettore. È la letteratura perfetta per i ricercatori del mistero.

3. Frankenstein di Mary Shelley: Nessun inverno letterario è completo senza l’ombra di un esperimento fallito. Frankenstein (1818), pur non essendo strettamente una storia di fantasmi, è un capolavoro del Gotico dove il gelo e la neve simboleggiano l’isolamento e la disperazione. La creatura è nata da un “lavoro sporco” che infrange le leggi della natura. Gran parte della narrazione si svolge in paesaggi glaciali, dalle Alpi alla desolazione artica. La tormenta non è solo meteo, è l’anima di Victor Frankenstein e del Mostro: un vuoto freddo e inesprimibile. Leggere Frankenstein in Dicembre, quando le notti sono lunghe, ci costringe a riflettere sul lato oscuro della creazione e sulla solitudine del genio, un monito perfetto contro l’arroganza dell’intelletto.

Questi tre classici ci insegnano che l’Inverno non è solo un periodo di sosta, ma una tappa fondamentale del ciclo eterno: un momento per affrontare le nostre ombre, i fantasmi che ci perseguitano e le conseguenze delle nostre azioni.

E voi? Quale di queste letture sceglierete per sigillare le vostre finestre contro il freddo e invitare l’inquietudine nella vostra mente? Fatemi sapere nei commenti, alla prossima.

Alice Tonini

5 risposte a “Riti di lettura invernale: storie che affrontano l’oscurità 🕯”

  1. Avatar Sara

    The Terror, di Dan Simmons

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    1. Avatar Alice Tonini

      Grazie mille 👍

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  2. Avatar Ljus av Balarm

    Non conosco Ghost stories, quindi sicuramente lo cercherò! Grazie.

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    1. Avatar Alice Tonini

      Grazie a te per aver condiviso il tuo pensiero. 🧡👋

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  3. Avatar sillydeliciouslyf76523c1d3
    sillydeliciouslyf76523c1d3

    Anche iio come l’altra tua lettrice Ljus sono incuriosita dai racconti di M. R. James. Vedrò in biblioteca.

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Esplorare il confine tra scienza ed etica nel mio nuovo romanzo

Lettori, siete pronti? Perché ormai ci siamo, il romanzo è pronto.

Questo non è solo un romanzo di fantascienza, sarà un viaggio nel cuore di un uomo e nel destino dell’intera umanità.

Mi ha sempre affascinato il potere della fantascienza, la sua capacità di costruire mondi alternativi per rispondere alle domande più complesse sul nostro futuro. Non volevo solo raccontare una storia, volevo esplorare il confine tra ciò che è tecnologicamente possibile e ciò che è eticamente giusto.

Il mio protagonista, ad esempio, si trova proprio su questo confine. Bernard è un brillante scienziato, desideroso di farsi notare dai suoi superiori, ma è anche un uomo che ama profondamente gli animali e la natura. Questo conflitto interiore è il motore della sua storia. Deve scegliere: l’ambizione e il progresso o il rispetto per la vita e la natura?

Vi assicuro che, tra le pagine, viaggerete in un mondo in cui ogni risposta porta a una nuova domanda e in cui il mistero del passato si intreccia in modo indissolubile con il futuro. Siete pronti a esplorare questo confine con me?

Alice Tonini

2 risposte a “Esplorare il confine tra scienza ed etica nel mio nuovo romanzo”

  1. Avatar wwayne

    In bocca al lupo per le vendite! 🙂

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  2. Avatar sillydeliciouslyf76523c1d3
    sillydeliciouslyf76523c1d3

    Prontissima! Augurissimi!

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Rivoluzionare la Società Moderna: Cosa Cambiare?

Che cosa cambieresti della società moderna? Se c’è una domanda che mi assilla, notte e giorno, tra le spire di trame oscure e le bozze di incubi letterari, è proprio questa. E mentre la mia mente, spesso un labirinto caotico a causa di un’ADHD con cui danzo ogni giorno, cerca una risposta, emergono scenari che non sempre possono trovare un confine tra le pagine di un romanzo horror o sci-fi.

La verità è che il mistero più grande non è celato tra creature d’ombra o futuri distopici, ma si annida nelle pieghe della nostra realtà quotidiana. I miei romanzi, lo sapete, sono un eco distorto e amplificato delle ingiustizie che vedo, delle voci che non vengono ascoltate. Ho esplorato il disagio giovanile: quella nebbia che avvolge le nuove generazioni; la soffocante morsa delle differenze sociali ed economiche che creano abissi invalicabili, la repressione e l’isolamento che relegano individui in margini invisibili. E non è solo finzione. È un riflesso di ciò che vivo, di ciò che molti di noi vivono.

Essere un “pesce piccolo” nel vasto oceano dell’editoria, un’autrice che naviga con una mente che corre su mille binari contemporaneamente, significa spesso essere confinati in un angolo. È un mondo dove l’investimento è misurato in profitto immediato, non in potenziale, non in originalità, non in voci “diverse”.

Ma immaginate per un istante, cari lettori, un mondo differente.

Immaginate un mondo dove l’inclusività non è una parola vuota, ma un tessuto connettivo che lega ogni individuo. Un mondo dove il valore di ciò che facciamo non è misurato da un unico, rigido metro, ma da una serie di strumenti adatti a ognuno di noi. Perché non siamo tutti uguali, e questa non è una debolezza, ma la nostra più grande forza. Vorrei un mondo dove la diversità non è un ostacolo, ma un coro di voci uniche che risuonano, finalmente, senza timore.

E se potessi riscrivere il presente, dipingerei una gioventù meno prigioniera degli schermi e più libera di costruire vere community. Meno post effimeri e più libri tra le mani, dove le storie prendono vita non in 280 caratteri, ma in pagine dense di significato. Sogno viaggi che non siano solo vetrine di perfezione, ma percorsi di scoperta, di sé stessi e del mondo, lontano dall’ossessione del “vedere ed essere visti”.

Forse è un sogno utopico, un’eco di un mondo che non esiste se non nelle trame che creo. Ma c’è un sottile filo di mistero che unisce questi desideri. Il mistero di cosa potremmo diventare se solo osassimo sfidare le convenzioni, se solo concedessimo spazio all’ignoto che è in ognuno di noi. Se solo permettessimo a ogni voce, anche la più inaspettata, di narrare la propria storia.

Carissimi lettori del mistero e dell’ignoto voi, cosa cambiereste? L’attesa e la speranza che accompagnano in silenzio le risposte a questa domanda, per me, sono il vero inizio di ogni possibile futuro. A presto 😘

Tonini Alice

3 risposte a “Rivoluzionare la Società Moderna: Cosa Cambiare?”

  1. Avatar Il Viandante Nero

    La prima cosa ce cambierei, sarebbe insegnare alle persone ad usare la loro MENTE. Attualmente, a scuola ci insegnano a ripetere la lezione, ad imparare alcuni concetti amemoria, ma senza insegnarci verametne come utilizzare questi concetti. Sembra che tutto sia demandato: la famiglia si aspetta che certe cose le faccia la scuola o lo sport, la scuola e lo sport si aspettano che le stesse cose le faccia la famiglia…
    E nel caos di fretta e vite condotte tra un impegno e l’altro, riflesso di ciò che sono ora i social network, i giovani imparano a trovare ogni risposta negli schermi e nei motori di ricerca e non hanno più lo spattimento di cercarla in sé stessi.
    Una volta disse: la mente è come un paracadute, funziona solo se è aperta. Io aggiungo: vedo molti che postano lamentele o insinuano dubbi sull’efficacia dei paracaduti proprio mentre stanno precipitando, invece di fermarsi un secondo e capire che devono tirare una cordicella…

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    1. Avatar Alice Tonini

      Grazie per la riflessione. Sono d’accordo, sarebbe bello poter insegnare alle persone anche il valore del bello e della creatività come esperienze uniche e arricchenti. Magari invece di saltare subito con il paracadute per poi lamentarsi ci si potrebbe sedere a guardare per un po’ il panorama e sentirsi un po’ più liberi.

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  2. Avatar sillydeliciouslyf76523c1d3
    sillydeliciouslyf76523c1d3

    Ben scritto ma parlando del “lasciarsi andare” tengo a precisare che non è per nulla facile, che bisogna aver coraggio, ecc. Ma sopratutto fidarsi della propria “parte oscura, ignota” ; parte della quale io ho paura, quasi mi terrorizza, e per questo la tengo sotto controllo e preferisco uniformarmi.

    Detto questo voglio precisare che a me i tuoi libri piacciono proprio perché un po’ diversi, non uniformi, alla ricerca di soluzioni diverse, di mondi non scontati……

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Scrivere una ambientazione horror: tra vecchi clichè e nuove mode che piacciono al pubblico

 Benvenuto lettore dell’ignoto, oggi per te c’è una sorpresa imperdibile: un articolo che parla del nostro genere preferito e delle ambientazioni che registi e scrittori prediligono quando devono costruire le loro storie.

Impostare l’ambientazione per l’horror è deliziosamente divertente ed evocativo, se ami il genere questo articolo ti darà soddisfazione.

 Oscurità e ambienti notturni sono locations ovvie usate fin dalle prime opere della tradizione gotica, in quei primi libri come Dracula (Bram Stocker, 1897) o film come Nosferatu (Murnau, 1922) o Il castello maledetto (Whale, 1932) è l’oscurità che rende la sensazione di mistero. Quello che il pubblico vuole conoscere è li, ma non lo vede, e questa ancora oggi rimane una delle tecniche più efficaci per creare spavento. Una stanza stretta e non illuminata causa le palpitazioni, così come gli spazi talmente affollati da impedire qualsiasi movimento, gli armadi dove trovare rifugio o tirarsi le coperte sopra la testa. Non faticherete a richiamare alla mente scene di libri o film con vecchie stanze buie con angoli pieni di ragnatele e castelli dagli alti soffitti, sono location tipiche per gli horror girati tra il 1930 e il 1940.

 

 

L’oscurità è un clichè ampiamente utilizzato ancora oggi ma non è l’unico elemento ambientale che può seminare incertezza, possiamo utilizzare anche grandi palazzi abbandonati, vuoti e deserti. Nessuno è mai riuscito a replicare con la stessa efficacia i  corridoi deserti e infiniti dell’Overlook Hotel che troviamo in The Shining (Stephen King, 1977 – Kubrick, 1980), e quei grandi, vecchi appartamenti dalle stanze vuote di cui fa grande utilizzo Polanski in Repulsion (Polanski, 1965) e Rosemary’s Baby (Polanski, 1968).

 E che dire delle strade nebbiose della vecchia città di Londra che sono il marchio di fabbrica di Werewolf of London (Walker, 1935). Le troviamo anche in Jack lo squartatore (Franco, 1976) e Sweeney Todd (Tim Burton, 2007), così come le colline nebbiose del nord dell’inghilterra fanno la loro spaventosa apparizione in An American Werewolf in London (John Landis, 1981). La nebbia è stata usata in ogni film del nostro Mario Bava: è facilmente identificabile come un altro dei clichè dell’horror ma non va mai sottovalutato il suo effetto sul pubblico, che siano lettori o spettatori. Tutti riusciamo ad immaginare il nostro punto di vista (ad esempio possiamo utilizzare Antonio) che cammina, in un cimitero avvolto dalla nebbia, facendo attenzione a dove mette i piedi, la forma degli oggetti attorno a lui è indefinita e può rimanere oscurata nella percezione dell’ambiente. Nei film è molto utilizzata la fotografia in bianco e nero perchè il regista può nascondere ogni cosa tra le sfumature dei grigi e le ombre nere e tenerla pronta per uscire in ogni momento ad aggredirci come in La notte del Demonio (Tourneur, 1957). Nebbia e vapore sono elementi così onnipresenti nelle opere che hanno libri e film a loro dedicati come The Fog (Carpenter, 1980) e The Mist (Stephen King, 1980 adattato a opera cinematografica da Darabont, 2007).

 

 

Un’altra ambientazione classica che adoro è quella della casa infestata, anche questa è adattabile all’infinito. Non c’è bisogno di essere ad Amitiville o in Elm Street per suscitare il terrore in un ambiente chiuso circondati da rumori sinistri. Io con il mio romanzo Il richiamo ho utilizzato una vecchia casa ma Ridley Scott la piazza nello spazio nel suo film Alien (Scott, 1979) creando un ambiente incredibile con l’aggiunta di tubi industriali, catene vibranti, e condotte con acqua gocciolante. Questa idea fu replicata in Event Horizon (Anderson, 1997), ma puo essere una postazione scientifica isolata tra i ghiacci dell’artico come in La cosa (Carpenter, 1982) o un piccolo rifugio tra le montagne come Quella casa nel bosco (Goddard, 2012), La casa (Raimi, 1981), Timber Falls (Giglio, 2007- inedito in italia) o Wrong Turn – Il bosco ha fame (Schmidt, 2003).

L’oscurità rappresenta l’infinito così come le foreste che si perdono a vista d’occhio. Libri o film ambientati in lussureggianti foreste tropicali o in oscuri boschi dove i personaggi sono isolati dal resto del mondo. Foglie verdi, rami secchi, terra e fango a prima vista sembrano sempre gli stessi elementi universali che richiamano la forza terribile della natura, ma forse è proprio per questa sensazione di innocente devastazione che ci sono così tante opere dove ragazze infilate in t-shirt aderenti fuggono dal cattivo correndo attraverso un bosco. The Blair Witch Project (Myrick e Sanchez, 1999) fa un uso superbo di questo senso di foresta infinita nel nulla, di disperazione e solitudine.

 

 

La stessa cosa possiamo dire per la gelida neve che trasmette la sensazione di desolazione. E’ incontaminata e pulita ma può anche accecare durante una tempesta. Nei film è poco utilizzata per via dei costi, ma può essere un buon elemento da inserire per separare i protagonisti tra loro o dalla società civilizzata. Un esempio può essere Misery (Stephen King, 1987 – Reiner, 1990), The Shining (Stephen King, 1977 – Kubrick, 1980) e il più recente Dead Snow (Wirkola, 2009), La cosa (Van Hejiningen Jr., 2011) e Let the ring one in (Alfredson, 2008), riproposto negli US come Let me in (Reeves, 2010).

Il deserto selvaggio e spietato funziona altrettanto bene, abbiamo Wolf Creek (McLean, 2005) e Le colline hanno gli occhi (Aja, 2006). Possiamo anche abbandonare la terra con i suoi climi estremi e ambientare le vostre opere negli oceani infiniti. L’effetto sarà lo stesso. Chi di voi non ha mai visto Lo squalo (Spielberg, 1976) le cui riprese presero un sacco di tempo perchè l’acqua modificava di continuo il colore della pellicola, ma possiamo citare un sacco di film (più o meno riusciti) girati interamente al mare dalla metà degli anni duemila, incluso Open Water (Kentis, 2003), e Triangle (Smith, 2009). 

Il mare nei libri è spesso elemento destabilizzante o portatore di caos, vedi Hodgson apprezzato autore horror con addirittura tre raccolte di racconti ambientati al mare: Terrore dagli abissi/ Acque profonde/ I demoni del mare (W.H.Hodgson, 2015 2018 2022).

 

 

Non abbiamo ancora finito. Fino a ora non abbiamo menzionato le grandi città, le metropoli. L’infinita giungla umana che viene compressa e relegata nelle più abbiette zone industriali abbandonate. L’urban horror le sfrutta da tempo immemorabile, e allora supntano i luoghi alienanti e i quartieri pericolosi dove fare incontri inaspettati. Distretto 13 – Le brigate della morte (Carpenter, 1976) ridefinisce gli spazi comuni urbani abbandonati e li rende un ottimo materiale per un urban horror. Un altro film interessante è Candyman (Bernard Rose, 1992) che mescola centro e periferia di una grande città; la sfida dell’urban è stata raccolta dall’horror europeo con La Horde (Dahan e Rocher, 2009), Outcast (Mc Carthy, 2010) e Attack the Block (Cornish, 2011). Nei romanzi le grandi città sono presenti in ogni opera ma vi cito L’ombra dello scorpione (Stephen King, 1994) perchè la visione post-apocalittica del maestro delle città grandi e piccole è davvero interessante. Poi può capitare che il nostro protagonista lasci la grande città per raggiungere la casa in campagna, e allora c’è Black Sheep (Stephen King, 2006), Isolation (O’Brien, 2006) e Calvaire (Du Weiz, 2004), tutte opere che si nutrono o nascono dalla solitudine, dall’isolamento e dal sesso.

Di sicuro sarete d’accordo con me quando dico o che lo stato nel genere horror ruota attorno all’immorale, alla sporcizia e all’incapacità dell’uomo di vedere cosa si nasconde davanti a lui. A volte sembra che registi e scrittori diventino saggi in ritardo, le nuove tecnologie digitali arrivano tardi a illuminare le opere, spesso viene sottovalutata la loro capacità di rendere il grottesco e il sanguinolento il più sporco possibile, e non parlo solo di film come Hostel (Roth, 2005) e Saw (Wan, 2004)  ma anche anche nelle trame dei libri. Comunque se vogliamo approfondire l’aspetto legato agli effetti speciali nei film si è diffuso l’utilizzo dei fogli di plastica dalle qualità opacizzanti per coprire i peccati dei personaggi, un buon esempio può essere H6: Diario di un assassino (Barón, 2005) o La casa della peste (Radclyffe, 2008). Entrambe le pellicole utilizzano fogli di plastica appesi nelle stanze per creare ombre indefinite e l’effetto di straniamento. Allo stesso modo le tende di palstica che circondano i letti d’ospedale possono nascondere molti peccati come nella già citata saga di Saw o Planet Terror (Rodriguez, 2007) e naturalmente non posso non citare le tende della doccia del progenitore del nostro genere preferito Psycho (Hitchcock, 1960).

 

Noi scrittori possiamo fare molto, dobbiamo aiutare il pubblico a immergersi nelle storie. Quando abbiamo l’opportunità di descrivere un luogo o di creare una ambientazione, una carneficina o di descrivere i sussurri pericolosi del soprannaturale, l’effetto che dobbiamo usare, i dettagli che dobbiamo inserire devono essere i migliori. Essere in grado di preparare una scena e renderla istantaneamente fonte di disagio è vitale sin dalle prime pagine.

Una volta impostato l’ambiente l’arco di trasformazione del personaggio procede più o meno cosi:

Qualcuno è messo in difficoltà da qualcosa di sconosciuto. Ovviamente prima di poterlo affrontare direttamente deve capire che si tratta di “qualcosa di sconosciuto”. Poi deve capire come la cosa sconosciuta opera e fare dei tentativi per sconfiggerla. Prima tenterà di sconfiggere il “qualcosa di sconosciuto” con i mezzi a disposizione, ma questo non sarà abbastanza perchè in questo modo non si potrà affrontare. Per scoprire cosa può sconfiggere il “qualcosa che non è più sconosciuto” il nostro protagonista deve avventurarsi nei territori dove l’inconoscibile è di casa. Se riuscirà ad apprendere e ad agire come agisce lo sconosciuto allora avrà una possibilità di vittoria, altrimenti verrà sconfitto. Il “qualcosa” poi cercherà un altra vittime.

Ok, si tratta di una semplificazione estrema ma serve per farvi capire il ruolo dell’inconoscibile nell’horror. Lo sconosciuto è il cuore dell’horror e questo è quello che  guida i personaggi nella molteplicità e nella pazzia, nella psicopatologia di un serial killer o nella forza mostruosa di un demone, nella follia di un tormento paranormale e tra gli artigli dell’oscurità. L’horror è un genere che per essere apprezzato (se è la parola giusta) vuole un pubblico aperto all’improbabile, all’impossibile e al fantastico. È un genere popolare tra i giovani assieme al fantasy e alla fantascienza ma non è solo per loro.

 

 

Questo perchè l’adolescenza è particolarmente influenzabile, non è ancora pienamente matura, non ha stabilito una routine di lavoro e vive in un movimento costante tra il restare a casa e andarsene per la propria strada. I giovani hanno ancora a disposizione la fantasia dei bambini, dove ogni storia può essere vera, ma lo stato gioioso ora si scontra con i limiti morali e tangibili della vita. Cercano di capire loro stessi come entità separata dalla famiglia e di stabilire un ruolo tra il gruppo dei pari. Ai giovani non importa nulla dei mostri spaventosi che possono prenderli.

Hanno anche una relazione diversa con la morte. C’è la possibilità che non abbiano mai perso una persona cara, un amico o un partner, oppure che non abbiano mai assistito ad una vera scena scioccante come un incidente d’auto o un incendio. In questa fase sono protetti dal mondo del dolore e del terrore, dalla paura e dalla rabbia. Per quelli che hanno avuto questo genere di esperienze sono cose di cui sperano di liberarsi presto. L’agonia di una malattia che si protrae nel tempo o la frustrazione fisica e mentale del declino che l’età richiede a tutti noi sono davvero molto dolorose, troppo reali per un horror, e rimangono materiale per i film mainstream o satirici della settimana e per le sere davanti alla tv. 

 

 

 

I giovani sono invincibili. Forse è per questo motivo che nei film e nei libri li vediamo provare a bere, fumare spinelli e correre rischi non necessari. Lo sanno meglio di tutti. La morte per loro non arriverà presto, e se dovesse presentarsi alla porta ci sarà uno scontro interessante. I corpi giovani sono forti e sopportano le privazioni, le intossicazioni e le punizioni fisiche. Non è per loro la vergogna del recupero, il desiderio bruciante di riprendersi e riempirsi lo stomaco di brodo caldo, vitamine, vino e cioccolata. Possono anche guardare la morte in faccia e riderci su, questo forse è il motivo per cui Final Destination (Wong, 2000 ) è una serie di film di successo, divertenti e deliziosi. I ragazzi guardano Victor Crowley tagliare un uomo a metà o Leatherface smembrare la sua ultima vittima e non provano nulla. Non è sociopatia (non tutti i giovani sono sociopatici) ma la loro parziale esperienza della vita li rende meno influenzabili dagli elementi horror. Le reazioni ad una scena di evisceramento possono essere molto diverse dall’horror rispetto a quando si guarda una operazione chirurgica in una soap opera in tv. L’horror mette in gioco l’empatia e la repulsione, ogni elemento concorre a quello scopo in opere come Cannibal Holocaust ( Deodato, 1980), Martyrs (Laugier, 2008) oppure alla riduzione di ogni cosa all’assurdo come in The Human Centipede (Six, 2009).

La credenza che ogni azione di un teenager resti impunita è il cuore di molti scherzi e goliardate ed è un buon elemento degli Slasher. Non solo è emozionante vedere il serial killer in azione ma ci divertiamo a seguire il gruppetto di teenager che si comporta in modo irresponsabile e li condanniamo: “Io non farei mai uno scherzo del genere nella vasca della doccia.” pensa lo spettatore a mente fredda nei cinema. Si tratta di un modo facile per arrivare al cuore della vicenda, la nostra brava ragazza che fugge dall’assassino e gli stupidi del gruppo che vengono decimati. Tutto molto prevedibile, no? Gioiamo quando questi personaggi inetti sono decapitati, mutilati, castrati o feriti e distrutti, condannati come maschi alpha a regredire come uomini di Neanderthal e ci sentiamo appagati dal nostro senso di conoscenza superiore e di proprietà. Questa è la catarsi negli horror. Vediamo lo scherzo e ci preoccupiamo per l’agnello sacrificale. Se la scena è fatta bene il pubblico sente un antagonismo tangibile verso il bullo fastidioso e la sua dipartita sarà accompagnata da un sospiro di sollievo.

 

 

 

Però abbiamo detto anche che l’horror non è interamente nelle mani dei giovani. Molti film hanno sbancato il botteghino come Paranormal Activity (Peli, 2007) The Blair Witch Project (Sanchez, 1999) Il sesto senso (Shyamalan, 1999 ) The Omen (Donner, 1976) e L’esorcista (Friedkin, 1973). Questi horror sono psicologicamete e intellettualmente profondi, ci pongono domande sulla nostra esistenza, sulla realtà e sul subconscio delle cose. Dipingono gli adulti in ruoli di leadership piuttosto che i teenagers, un modo per incoraggiare anche chi ha qualche anno in più a guardarli. 

L’horror piace al pubblico e piace agli attori e alle case de produzione. A volte il film è pubblicizzato come l’opera di Jodie Foster o con la partecipazione di Julianne Moore per attirare l’attenzione. Evan Mac Gregor può essere citato con Adrian Brody, Melissa George e Sarah Michelle Gellar e hanno ricoperto molti ruoli importanti. Bruce Willis dopo un solido inizio negli action movie in Tv, è apparso in modo costante in progetti interessanti incluso il Sesto Senso ( Shyamalan, 1999 ) e Twelve Monkeys (Gilliam, 1995). Comunque gli attori molto famosi (vedi Jack Nicholson in Wolf (Nichols, 1994)) o Sir Anthony Hopkins in The Rite (Hafstrom, 2011)  tendono a sbilanciare la storia e possono arrivare a togliere ogni credibilità (vedi Nicholas Cage con il suo film apocalittico, o con qualsiasi altro film…). Come una sitcom, l’horror deve creare le proprie stelle. 

 

 

Ci sono legioni di attori che iniziano la carriera nell’horror. Nessuna vergogna per mr Clooney a recitare in pellicole come Attack of the killer Tomatoes (De Bello, 1978), o nell’essere il primo ragazzo che muore in Nightmare on Elm Street (Craven, 1984) per il nostro Johnny Depp. Alcuni restano fedeli al genere per gran parte della loro carriera (Robert Englund, Christopher Lee) altri continuano ad accettare parti negli horror quando trovano opere che gradiscono (Donald and Keifer Sutherland). Purtroppo non stà agli sceneggiatori dettare le regole del gioco quando arrivano personaggi famosi nel casting. Se hai venduto il tuo manoscritto ed è stato coinvolto un grande nome uno sceneggiatore può festeggiare ed essere triste allo stesso modo perchè è sicuro che dovrà riscrivere buona parte della sua opera per adattarla alle richieste del grande attore. Ma questa è un altra storia.

E anche per oggi abbiamo terminato. Caro lettore dell’ignoto spero di non averti annoiato a morte con il mio fiume di parole ma l’horror per me è estremamente evocativo. Ti auguro una buona lettura e alla prossima!

Alice Tonini 

 

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