Lettori del mistero bentrovati. Oggi il post è particolarmente importante. Il viaggio di un romanzo inizia con un’idea, si nutre di personaggi e prende vita in luoghi. Ma c’è un momento, dopo tutto il lavoro e la passione messi dall’autrice, in cui il romanzo acquisisce una sua identità. Questo momento è arrivato.
Siete stati con me in ogni passo di questo percorso. Avete conosciuto i personaggi, vi siete immersi nei luoghi e avete scoperto le ispirazioni che hanno dato vita a questa storia. E ora, sono pronta a svelarvi il volto del romanzo.
La copertina del mio ultimo romanzo
La copertina è il riflesso di tutto ciò che abbiamo esplorato: un’immagine che cattura il mistero, la solitudine e il conflitto che si nascondono tra le pagine. È la porta d’accesso a un mondo che non vedo l’ora che scopriate insieme a me.
Qui sotto vi lascio la sinossi perché è venuto il momento che scoppiate anche la storia che sta dietro ai viaggi di Bernard.
L’eco della specie perduta: Quando la Perfezione Ambientale è un crimine
In un futuro non troppo lontano, l’ecologia non è più una buona pratica, ma una legge suprema imposta dall’onnipotente OMT (Organizzazione Mondiale per la Tutela Ambientale). Un mondo di verde apparente, dove la natura ha un costo altissimo, pagato col sangue. Questo è il palcoscenico di L’eco della specie perduta, un thriller distopico mozzafiato che smaschera l’inquietante verità dietro la “perfezione” ambientale.
Al centro della tempesta c’è Bernard Livoma, un brillante ricercatore dell’OMT ossessionato solo dalla sua carriera e dalla fedeltà del suo geniale compagno, l’archivista Ivan Sanderson. Ma Bernard è in fuga, non solo da un’eredità familiare che non vuole, ma da una vita di menzogne. Quando una missione di recupero fallisce miseramente a Puerto Rico, lasciandolo esposto ai suoi nemici, Bernard accetta l’unica via d’uscita: una missione “speciale” top-secret.
La coppia viene spedita in una base isolata, in bilico tra i campi di una guerra imminente tra le due Russie. Lì, il segreto si svela in tutta la sua orrore. Bernard e Ivan scoprono un laboratorio segreto dove credono che l’OMT non si sia limitata a salvare la natura, ma la stia attivamente riscrivendo. Forse l’organizzazione sta riportando in vita animali preistorici creduti estinti e creando creature ibride geneticamente modificate, destinate a sostituire l’uomo nel lavoro… o a diventare letali armi da guerra. I protagonisti, ispirati ai fondatori della criptozoologia (Bernard Heuvelmans e Ivan Sanderson), sono accompagnati da un allegro Tilacino, nel mezzo di un enigma che affonda le radici in un passato che doveva restare sepolto.
Tra intrighi di potere, esperimenti genetici oscuri e una corsa contro il tempo che spazia dal Nord Italia alle desolate steppe siberiane, Bernard è costretto a porsi la domanda definitiva: Qual è il vero scopo dell’OMT? E, soprattutto, quanto è disposto a sacrificare per portare alla luce la terrificante verità? Perfetto per i lettori che amano l’azione incalzante della fantascienza d’avventura e le trame distopiche che mettono in discussione i confini dell’etica, L’eco della specie perduta è la tua prossima ossessione. Unisciti a Bernard nella sua lotta contro chi crede di poter giocare a essere Dio.
La sinossi che avete appena letto è solo l’inizio. È un indizio, una promessa. Dietro a queste parole si nasconde un’avventura che vi porterà a esplorare il confine tra la scienza e la natura, tra l’ambizione e l’etica. E ora che avete il primo pezzo del puzzle, siete pronti per completarlo?
Alice Tonini
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Una replica a “Il volto del romanzo: scopri la copertina esclusiva”
Carissimi lettori del mistero eccoci al nostro consueto appuntamento letterario.
Oggi ci immergiamo nelle profondità della letteratura insolita e misteriosa dove personaggi inusuali danzano con le parole. È qui che incontriamo l’enigmatico Bernard Malamud, autore di un opera che lo avrebbe marchiato a vita: Il commesso, pubblicato nel 1957, qui in Italia è uscito anche con il titolo di Il giovane di bottega. Quest’opera non solo ha gettato le basi della sua carriera letteraria ma ha anche fatto nascere una etichetta che Malamud detestava: scrittore ebreo-americano. Una etichetta che a suo dire lo limitava e lo disgustava profondamente. Il commesso diventa un film nel 1997 anticipato di qualche anno da un altro film sempre ispirato ad una sua opera con il titolo Il migliore (The Natural, 1984 Levinson) tratto da un opera del 1952. Film con un giovanissimo Robert Redford che fu candidato a ben 4 premi Oscar. Ma al di la del successo è la battaglia di Malamud contro le etichette a rendere la sua storia così avvincente. A questo periodo sembra risalire la sua enigmatica frase, spesso citata:
Ogni uomo è un ebreo, anche se non lo sa.
B. Malamud
Ma torniamo al cuore pulsante della nostra discussione Il commesso. Questa non è solo una storia ma una immersione nell’anima del passato americano, un eco delle sue ferite e delle sue speranze. Sebbene vi abbia già accennato al suo successo, la vera forza dell’ opera risiede nelle sue radici più intime: Malamud attinge a piene mani al suo vissuto più intimo, trasformando le difficili esperienze del padre (un bottegaio ebreo russo immigrato, proprio come l’ indimenticabile protagonista Morris Bober) in pura arte narrativa. A differenza delle complesse trame che abbiamo esplorato in precedenza Il commesso incanta con la sua disarmante semplicità, celando una chiarezza che commuove. È un sottile ma potente gioco morale che dispiega i temi universali della sofferenza e delle grazia, invitandoci a riflettere sulla natura umana e sul destino.
Immergiamoci ora nella cruda realtà che attanaglia la famiglia Bober. Morris si aggrappa al suo vecchio negozio, un’attività che arranca ad arrivare a fine mese, un simbolo della loro lotta quotidiana. Al suo fianco, la moglie Ida condivide la stessa fatica e la stessa morsa della povertà. Poi c’è Helen, la figlia, un barlume di speranza, una giovane promettente. Ma il destino, come spesso accade nella vita, si rivela impietoso: Ephraim, il figlio che aveva sacrificato il college per aiutare la famiglia, si spegne prematuramente a causa di una banale infezione alle orecchie. Come ben sa chi ha conosciuto il dolore, le cose possono sempre precipitare. E infatti, la sfortuna non si ferma qui: dei ladri inetti assalgono Morris nella sua bottega, lasciandolo inabile al lavoro. Ma il nostro protagonista, dimostrando una resilienza ammirevole, si rifiuta di arrendersi, lottando con ogni fibra per rimanere a galla. È in questo scenario di disperazione che emerge una figura enigmatica: Frank Alpine. Orfano, di origini italiane e di fede cattolica, Frank si presenta con una proposta quasi assurda: vuole lavorare per Morris gratuitamente, per fare esperienza, o almeno così sostiene. Si accontenta di poco: un po’ di latte, qualche sandwich, un giaciglio sul pavimento della cantina, finché non gli viene offerto un divano e poi, finalmente, un letto. Ma quali sono le vere intenzioni di questo misterioso giovane? E come influenzerà la già precaria esistenza dei Bober?
Man mano che la storia si dipana, una verità sconcertante emerge dalle ombre: Frank Alpine, l’uomo che si accontenta di pochi spiccioli, è in realtà uno dei ladri che in passato avevano assalito Morris. Un colpo di scena che ribalta ogni aspettativa! Eppure, nonostante la sua natura tutt’altro che irreprensibile, Frank ha una strana presa sui clienti, e sorprendentemente gli affari in bottega iniziano a fiorire. Ma il passato non è l’unica ombra sulla sua anima: Frank non è un santo. Occasionalmente ruba l’incasso, falsifica i documenti e intasca denaro. E poi c’è Helen Bober. Frank ne è attratto in modo viscerale, quasi ossessivo: i suoi occhi “addocchiano” le mutandine a fiori e i reggiseni sotto i vestiti, la corteggia in modo sfacciato e, con un’inquietante audacia, la spia mentre si fa la doccia. L’attrazione di Helen, però, è un turbinio di sentimenti contrastanti. Da un lato, il suo cuore spera nel ritorno di Nat Pearl, lo studente di legge con cui ha condiviso la sua verginità. Dall’altro, una curiosità torbida e irresistibile la spinge verso Frank. Cosa succederà in questo pericoloso gioco di attrazione e segreti?
Al centro di questa narrazione, si dipana un groviglio di pregiudizi etnici che affiorano apertamente, creando tensioni palpabili. Frank, il ragazzo cattolico, si dibatte con un latente disagio, sentendosi a volte in colpa per il fatto di lavorare per degli ebrei. Allo stesso modo, Ida non riesce a sentirsi completamente a suo agio con la presenza di Frank in casa, una figura che per lei rappresenta l’estraneità. Eppure, in questo contesto intriso di reciproche diffidenze, la riabilitazione e la redenzione si fanno strada, lentamente, quasi impercettibilmente. Ma c’è un’ombra che incombe su Frank: le sue speranze e ambizioni personali superano di gran lunga le sue reali capacità. È un uomo profondamente ambivalente, un’anima in pena che cerca disperatamente il riscatto nell’oscurità delle sue azioni passate. Il suo è un tentativo disperato di riguadagnare la fiducia delle persone, dopo averle tradite nei modi più abietti. Riuscirà a liberarsi dalle catene del suo passato e a trovare la vera redenzione?
Il percorso di Frank è un intreccio di luci e ombre, un’agonia di contraddizioni che lo rendono indimenticabile. È lui a salvare Helen da una violenza in un parco pubblico, un gesto eroico che purtroppo viene macchiato dalla sua stessa brutalità: Frank le userà violenza, rivelando la sua natura bifronte. Nonostante questo, cerca ostinatamente il perdono di Morris, l’uomo che ha derubato e raggirato per anni. C’è una scena di struggente bellezza che lo vede intento a intagliare, con un semplice coltellino, una tavola di legno, trasformandola in un commovente tributo per Helen. Ma ogni speranza di redenzione sembra svanire quando lei, con un gesto carico di dolore e rifiuto, getta via tutto nella spazzatura. E ancora, a sottolineare la sua battaglia per l’accettazione, le ripetute volte in cui Morris, esasperato, lo caccerà senza mezzi termini dal negozio. Queste sono le sfaccettature di un uomo che lotta per emergere dalla propria oscurità, un passo avanti e due indietro.
Il sipario cala su un finale che è tutt’altro che rassicurante, lasciando il lettore sospeso in un’ambivalenza che brucia. Frank Alpine, l’uomo delle mille contraddizioni, finisce per abbracciare l’eredità di Morris, identificandosi con il suo modello di vuoto, tanto da giungere a convertirsi all’ebraismo. Un epilogo sconcertante, che lo vede assorbire l’identità di colui che aveva tanto raggirato. Nel frattempo, Helen si dibatte in una lotta interiore devastante, cercando disperatamente di auto-convincersi che la violenza subita non sia mai accaduta.Questa non è una conclusione, ma un’ulteriore evoluzione interiore, tipica del genio di Malamud. L’autore stesso, in una prefazione di una vecchia edizione del romanzo, offre una chiave di lettura ecumenica e provocatoria: spera che Frank non si arrenda alla lettura di San Francesco, ma che continui con Isaia. Un invito a non fermarsi a una spiritualità consolatoria, ma a cercare una verità più profonda e, forse, più scomoda, tra le righe di un destino ancora da scrivere. E voi cosa ne pensate di questo viaggio tra redenzione e inganno? Quali sono le domande che questo finale vi lascia? Fatemelo sapere nei commenti, e se l’articolo vi ha incuriosito, lasciate un like!
Alice Tonini
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Una replica a “Il commesso di Malamud: tra sofferenza e redenzione”
[…] come due mondi così distanti si sono trovati uniti nel bisogno di una bussola morale:Il commesso di Malamud: tra sofferenza e redenzione, Gridiamo più forte con Baldwin e gli afro-americani del […]
Lettore del mistero e dell’ignoto bentrovato. Oggi con questo articolo ti porto il nostro solito, inusuale, invito alla lettura dove ti consiglio libri famosi ma solitamente poco conosciuti o dai risvolti curiosi.
Oggi ti parlo de “L’uomo invisibile” di Ralph Ellison, da non confondere con l’opera del 1897 con un titolo simile “L’uomo invisibile” scritto da H.G.Wells dove il personaggio Griffin diventa letteralmente invisibile. Storia interessante ma oggi non è questo il tema.
Il protagonista dell’affascinante racconto che ti presento oggi diventa invisibile in senso metaforico, diventa anonimo. Anche quando ad un certo punto il protagonista si darà un nome il lettore sarà portato ad ignorarlo e non se ne accorgerà nemmeno. Per comodità quindi chiameremo il protagonista solo Narratore. Il protagonista, come il suo creatore, è un afro-americano. La storia mentre si indirizza verso le problematiche del pregiudizio e dell’identità razziale trascende i limiti della categorizzazione per diventare una storia sulle difficoltà a diventare un individuo. Non ci sorprende che Ralph Waldo Ellison, nato in Oklaoma, prese il nome dal filosofo Ralph Waldo Emerson, probabilmente aveva bisogno di un po’ di fiducia in sé stesso nel trattare uno dei temi più importanti di Emerson che lo ha fatto entrare nella storia della filosofia.
La struttura della novella è ciclica. Si apre con il Narratore in un nascondiglio segreto ad Harlem (chiaramente un riferimento all’eroe di Dostoyevsky senza nome di Note dal sottosuolo non può essere evitato, egli venne rifiutato dalla società nei limiti del razionalismo e arrivò a chiamare sè stesso spiacevole e malvagio.) La caverna del nostro Narratore, che è di natura buona, ha un chiusino all’imboccatura e più di mille lampadine fissate al soffitto che illuminano l’ambiente. Non è sepolto li dentro e ci rassicura che nella stagione appropriata farà la sua comparsa in superficie. Si tratta di un letargo, come quello di certi animali orsini che abitano le caverne in inverno. Il Narratore vede se stesso come ibernato. Mentre si ripromette di uscire e ascolta le registrazioni di Louis Armstrong, canzoni come What Did I Do to be so Black and Blue e riflette sulla catena degli eventi che lo hanno portato fino a li.
Il viaggio del Narratore va da sud a nord, dall’innocenza all’ esperienza. Dalla fiducia nelle immagini, negli esempi e nelle assunzioni degli altri a una visione chiara di quelli che sono i suoi bisogni. Spolverate tra i dettagli della trama queste differenti fasi della vita del Narratore ci danno un senso di surreale, uno humor nero guidato da una consapevolezza selvaggia che da vita a momenti parodistici. I tentativi del protagonista di compiacere gli amministratori bianchi in visita al college, il corrotto presidente nero della scuola che ha fame solo di potere, gli amministratori del nord presso i quali il Narratore cerca lavoro, i suoi impiegati presso la compagnia Liberty Pain, gli uomini bianchi della Fratellanza che vogliono sfruttare la sua pelle nera e le sue capacità oratorie scoraggiandolo a pensare in modo autonomo. Lui si rifiuta anche di cadere sotto l’incantesimo di Ras il distruttore, un nazionalista nero violento che attraversa Harlem a dorso di cavallo vestito da guerriero etiope.
Se non vi sentite pronti per il libro intero che conta circa 440 pagine, leggete il capitolo uno, stampato separatamente nel 1947 sul giornale Horizon per introdurvi al potere di Ellison con le parole. O scegliete le vignette serie, ma anche comiche, nel capitolo tredici dove il Narratore liberato dalla propria immagine di studente del college viene colto nell’atto impulsivo di mangiare una patata dolce comprata dal carretto per le vie di Harlem. In quel momento è libero di fare al venditore una dichiarazione esistenziale che permea tutta l’opera: I am what I am.
Il tema dell’opera è quanto mai attuale. Siamo immersi in una cultura consumistica che ci promette ogni giorno di toglierci dall’anonimato grazie ai nostri acquisti, grazie ai nostri post sui social, grazie ai like che collezioniamo sotto alle nostre fotografie. La nostra identità viene fondata sui beni materiali e sull’apparire ma purtroppo con il tempo ci accorgiamo che il prezzo da pagare è alto, soprattutto in termini di salute mentale, quindi mi chiedo e vi chiedo: siete disposti a perdere voi stessi pur di aderire a una identità decisa da altri fatta di beni materiali e apparenza o forse è meglio l’anonimato?
Cari lettori dell’ ignoto queste sono le riflessioni che il nostro Narratore mi ha ispirato e spero che le ispirerà anche a voi. Vi auguro una buona lettura e ci risentiamo presto.
Alice Tonini
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2 risposte a “Razzismo e identità in L’uomo invisibile 📚”
sillydeliciouslyf76523c1d3
Bella! Bella presentazione di un libro importante, singolare e non semplice. Libro che personalmente non leggerò mai ma che spero i tuoi lettori leggano e commentino, mi piacerebbe sapere il loro parere. Ciao, alla prossima!
[…] surreale tensione. Per leggere il resoconto completo della loro indagine esistenziale, clicca qui: Razzismo e identità in L’uomo invisibile 📚, Riflessioni su Walden: Un Viaggio di Crescita Personale, La Montagna Incantata: Viaggio tra […]
Lettori del mistero bentrovati. Oggi terminiamo la nostra passeggiata per l’isola di Samo, discorrendo di magia, musica e numeri, per farci una idea delle antiche radici della creatività e del misticismo legato all’arte che nei tempi antichi era considerata sacra. La Magia dei Numeri: Pitagora e Samo #1
Torniamo quindi al nostro Pitagora e alla sua scuola di magia. Le fonti dell’epoca ci raccontano che di tanto in tanto Pitagora si recava al tempio per lunghi periodi a meditare. In queste occasioni il cibo che si portava appresso consisteva in semi di papavero e di sesamo, pelle di cipolla marina senza liquidi, che riteneva ricca di proprietà curative, fiore di narciso selvatico, foglie di malva e un impasto di orzo, piselli e miele selvatico. Gli piaceva anche un miscuglio di semi di cetriolo, uva passa, fiori di coriandolo, semi di malva e di porcellana, formaggio grattato, farina, crema e miele selvatico. Se tutto questo a noi non suona molto appetitoso è certo che Pitagora mangiando così arrivò ai cent’anni.
Gran parte del bagaglio di conoscenza che trasmise ai suoi discepoli lo aveva acquisito durante i suoi lunghi viaggi. Lo storico romano Porfirio (233 – 304) e il filosofo siriano Giamblico (250 – 330) scrivono entrambi che il maestro aveva appreso la geometria e l’astronomia in Egitto, l’astrologia e la numerologia in Babilonia e in Fenicia. Il suo rifiuto di consumare i fagioli ha qualche parallelo con ciò che viene prescritto nei testi indiani, ma anche gli egizi avevano la proibizione di mangiarne perchè i loro sacerdoti, secondo Erodoto, li consideravano cibo impuro. Alcuni sostengono che Pitagora avesse accettato la dottrina della metempsicosi (o della reincarnazione) dal suo primo maestro Ferecide. Altri rimandano all’India, ma sembra meno probabile. Ralph Linton, nel suo libro L’albero della cultura sottolinea che la credenza nella reincarnazione non ha origine in India perché non ne esiste alcuna menzione negli antichi Veda (i libri sacri indiani), nè tale credenza è parte culturale indoeuropea in generale, nonostante ci sia qualche riferimento alla metempsicosi nella tradizione celtica. A questo proposito è interessante notare che il biografo dei filosofi greci Diogene Laerzio nel III secolo d.C scrive che Pitagora avrebbe studiato con i sacerdoti druidi presso i celti. Ci dice ancora Giamblico, biografo di Pitagora:
https://karlovasi-square1.click2stream.com/ (Questa è la piazza di Karlovasi in live, nel caso la Webcam non fosse più in funzione fatemelo sapere con un messaggio o un commento, grazie mille.)
Egli viaggiò ovunque, affrontò rischi e pericoli di ogni tipo, avendo scelto di lasciare la sua terra e di vivere con popoli a lui stranieri. Liberò uomini da tirannie, diede indirizzi chiari la dove erano politiche confuse e aiutò città a emanciparsi. Riuscì anche a debellare illegalità e a impedire cattive azioni di uomini protervi e tirannici.
Abbiamo già visto nello scorso articolo la tendenza a dipingere attorno alla figura di Pitagora una aura mistica, quasi eroica ma non è in discussione il fatto che fosse un viaggiatore instancabile. Nonostante abbia visitato quasi tutto il mondo allora conosciuto (Siria, Arabia, Caldea, Fenicia, Egitto e probabilmente anche India e la Gallia), sempre dicendo che i viaggiatori devono imparare a lasciare i loro pregiudizi a casa, Pitagora restava comunque innamorato della sua Samo che era, e resta, una delle più belle e lussurreggianti isole della Grecia. Si tratta di un luogo unico perché piena di boschi, tanto che nell’antichità la definivano “isola delle foglie” o “coperta di querce”. Un altra caratteristica sono le sue montagne, infatti l’isola fu battezzata dai primi fenici che vi si insediarono “samos” cioè “l’alta” o “la nobile”. Le montagne sono, si pensa, dei vulcani spenti e questa teoria è rafforzata dalla presenza di moltissime caverne, una delle quali è chiamata “la candela” perché la leggenda dice che nelle notti oscure dal suo interno sembra emanare una misteriosa luce visibile. Samo è inoltre la terra natale di Era o Giunone, la moglie di Zeus o Giove. Un famoso tempio a lei dedicato fu costruito nel periodo più antico, purtroppo ora ne rimane una sola colonna. Il luogo di nascita del filosofo, un minuscolo porto che attualmente si chiama Pithagorio, sorge sul lato sud dell’isola, e un tempo ne fu la capitale. Li vicino si trova un tunnel scavato nella montagna lungo più di 400 metri che serve a incanalare l’acqua. Si dice che sia stato Pitagora stesso a fare i calcoli necessari alla sua realizzazione. Fu costruito da Policrate, uomo pubblico famoso per aver tentato incessantemente di ingraziarsi il popolo, distribuendo soldi ai poveri e donando alla città grandi opere pubbliche.
Egli governò l’isola dal 535 al 515 a.c., arrivando al potere con l’aiuto dei suoi due fratelli approfittando di una festa dedicata a Era. In seguito tolti di mezzo i fratelli si costruì una flotta di 100 navi pirata con cui terrorizzerà l’Egeo, alleandosi con Amasi d’Egitto contro i persiani. Aveva fama di essere fortunatissimo: un giorno buttò di proposito un anello di smeraldi in mare e tre giorni dopo se lo ritrova nella pancia del pesce che gli è servito per pranzo. Dagli storici viene ricordato come Policrate il Tiranno e per qualche tempo in pochi gli tennero testa. I suoi nemici a Samo si allearono con gli spartani, i corinzi e i persiani per batterlo, ma egli riuscì a resistere all’assedio e venne catturato solo quando il governatore della Lidia gli offrì dell’oro e lo convinse a recarsi sulla terraferma. Erodoto ricorda che i modi della sua tortura e della sua uccisione furono così orribili da non potersi nemmeno narrare.
Fu proprio a causa di Policrate che Pitagora abbandona Samo per trasferirsi a Crotone. Ma al tempo della partenza era già un uomo famoso, uno dei suoi motti preferiti era “I numeri prendono gli uomini per mano e li conducono, senza errori, sul cammino della ragione.” Pithagorio oggi è una delle città più tranquille della Grecia e non reca segni del grande filosofo e matematico. L’unica statua della città commemora Licurgo Logothetis, leader di una rivolta contro i turchi nel 1821.
Samo è anche città natale di altri illustri greci: Esopo autore di favole, il filosofo Epicuro, l’astronomo e scienziato Aristarco e Calistrato che per primo organizza l’alfabeto greco in 24 lettere. Oggi l’isola è conosciuta anche per il suo ottimo vino, il preferito di Lord Byron e anche dei molti turisti che la affollano. Gli abitanti godono di ottima salute e sono longevi. Inoltre sono anche famosi per essere intelligenti e per saper prevedere eventi futuri con inquietante bravura. Insomma tutto sommato non sarebbe un brutto posto dove vivere.
Ma torniamo al maestro. Pitagora fonda la sua accademia a Crotone, scegliendo quella che all’epoca era una piccola città con un buon porto naturale, inoltre il suo nome significa “oracolo di Pizia”, un riferimento diretto all’oracolo di Delfi, dal quale deriva anche il nome di Pitagora. Abbiamo già visto che alcuni dei pitagorici consideravano il loro maestro una reincarnazione del dio Apollo. Egli aveva cinquanta anni quando diede vita alla sua accademia a Crotone, una scuola alla quale i discepoli davano tutto quello che possedevano riservandosi il diritto di riprendersi tutto se avessero scelto di andarsene. Quando questo succedeva gli altri discepoli erigevano una tomba con il nome di chi se ne era andato e di lui non si doveva più parlare.
Il maestro che considerava i due sessi alla pari, accettava sia uomini che donne ma richiedeva indistintamente a tutti di vestirsi con semplicità e comportarsi con sobrietà: “Senza abbandonarsi al riso, ma senza nemmeno essere troppo severi.” Così riferisce Will Durante nel suo libro Vita della Grecia. Ai suoi studenti era proibito praticare sacrifici, uccidere animali non pericolosi all’uomo e abbattere alberi. Non dovevano mangiare carne, uova o fagioli. La proibizione di questi ultimi era interpretata in molti modi. Cicerone pensa che fosse per il fatto che questi disturbano la mente durante il sonno, Aristotele dice che i fagioli sono simbolo di dissolutezza e che il loro divieto significa anche richiesta di castità. Il fagiolo è il simbolo arcaico della donna e poteva quindi anche essere una richiesta velata di astenersi dal sesso. A quel tempo si usavano i fagioli anche per le votazioni, e qualcuno ha teorizzato che il veto che li colpiva fosse una allegoria della proibizione al far politica e all’assumere cariche pubbliche. Lui diceva solamente che i fagioli erano l’anima dei morti. Sul mangiare carne Pitagora era meno ambiguo. Diceva che questa ottundeva le facoltà mentali e le capacità di ragionamento dell’uomo. Suggeriva quindi ai giudici di astenersi dal mangiare carne prima di un processo se volevano dare un verdetto onesto e intelligente.
Allorchè i suoi studenti erano pronti per gli studi più avanzati, le fonti dell’ epoca raccontano che erano già arrivati al punto che la percezione extrasensoriale e la chiaroveggenza, doti interiori profonde, erano pronte a manifestarsi, specialmente visto che gli insegnamenti più alti venivano impartiti sempre di notte, sul mare o nelle cripte dei templi illuminate dalle fiamme della nafta.
Le condizioni per arrivare all’iniziazione erano dure e molte a noi suonano arbitrarie, anche perché non conosciamo il ragionamento che le sottendeva. Perché per esempio metteva in guardia contro il guardare in uno specchio vicino a una fonte di luce o il raccogliere quel che era caduto? Quale superstizione sconsigliava di toccare un gallo bianco o di stare sotto lo stesso tetto delle rondini? Forse alcune di queste credenze erano gli ultimi frammenti di riti religiosi più antichi? Comunque sia Pitagora voleva che queste proibizioni venissero assolutamente rispettate e alla fine fu proprio questo a portarlo alla morte. Alla veneranda età di cento anni, dopo aver sposato a sessanta anni una delle sue allieve e aver avuto sette figli purtroppo morì. Un certo Silone, un ricco e importante cittadino di Crotone, al quale fu rifiutata l’ammissione all’accademia, imbestialito da tale diniego raduna un banda di assassini e fece dar fuoco alla scuola e uccidere il maestro.
Dopo la dipartita altre scuole pitagoriche furono saccheggiate e bruciate, forse perché la loro influenza venne considerata un pericolo per i poteri politici dominanti. In questo modo però molti dei segreti matematici che non erano mai stati messi per iscritto andarono perduti, anche se per secoli una scuola di natura quasi mistica sparsa nelle città di quella che allora era la Magna Grecia continuò a diffondere una parte degli insegnamenti.
Ma quali erano questi misteriosi insegnamenti? Una parte l’abbiamo già vista nello scorso articolo dove abbiamo parlato dell’importanza della numerologia e della musica. I pitagorici credevano che tutto ciò che esiste ha una voce e che tutte le creature, secondo le parole di Emil Neumann, «cantano eternamente le lodi del creatore.» Platone che fu molto attivo come neopitagorico, 150 anni dopo la morte del maestro credeva fermamente nell’efficacia della musica e pensava che non fosse solo utile a dare buone emozioni, ma anche «a imprimere l’amore in tutto ciò che è nobile e l’odio in tutto ciò che è malvagio.» Nella sua opera Storia della musica Neumann dice inoltre che sia Platone, sia Damone di Atene, il maestro di musica di Socrate, erano d’accordo nel pensare che l’introduzione di una scala poco armonica potesse danneggiare un paese e che alterare una chiave musicale potesse scuotere una nazione dalle fondamenta.
Le sette sacre vocali: alfa, epsilon, eta, iota, omicron, ipsilon e omega si credeva avessero una importante relazione con i sette pianeti; e i nomi di Dio si pensava fossero formati dalle combinazioni di queste sette armonie planetarie. I primi strumenti musicali avevano sette corde e gli antichi egizi usavano solo i sette suoni primari per i loro canti sacri proibendo nei loro templi ogni altro suono. Platone scrisse che i greci avevano appreso gli aspetti filosofici e terapeutici della musica dagli egizi i quali a loro volta consideravano Thot, il greco Ermes, fondatore dell’ arte. Alcuni poemi e canti esistevano nell’ antico Egitto da almeno 10.000 anni, diceva ancora Platone ed erano di una bellezza tale da essere ritenuti opere divine. Ci fu un momento storico nell’antica Grecia nel quale la dissonanza era proibita per legge e un musicista che componeva un brano considerato dannoso veniva messo al bando, avendo commesso un crimine contro il bene comune.
Lo stesso valeva anche per un architetto che avesse costruito un edificio in maniera asimmetrica. Pitagora credeva che nei tempi più antichi quando un architetto disegnava un grande edificio, un tempio o un altare, lo doveva immaginare come un magnifico accordo sinfonico e lo doveva sviluppare in armonia con questa specifica vibrazione. Egli spiegava ai discepoli che avrebbero potuto camminare per le strade di una città qualsiasi con un liuto tra le mani e trovare la nota fondamentale che si riferisse a un qualsiasi edificio anche una nota distruttiva che trovata poteva addirittura radere al suolo l’ edificio stesso. «Ci rendiamo anche conto,» continuava «che ogni suono, come ogni colore, ha un certo effetto sulla mente, sia sull’immaginazione, sia su un edificio.»
Il termine medicina musicale è un concetto pitagorico. Difatti il maestro usava la musica per calmare i suoi studenti prima del sonno e per rendere i loro sogni profetici. Si dice che abbia placato la frenesia di un giovane mentre stava raccogliendo della legna per bruciare la casa della sua fidanzata convincendo un suonatore di flauto che si trovava nelle vicinanze a cambiare la musica. Scriveva Giamblico: «Ci sono delle melodie pensate come rimedi contro le passioni dell’ anima, o contro lo sconforto, studiate appositamente da Pitagora, perché fossero d’aiuto in queste difficili circostanze. Egli compose delle altre melodie, contro l’ira, il furore e diverse aberrazioni dell’animo umano. Esiste inoltre una particolare modulazione inventata come rimedio contro i desideri.»
È sempre Giamblico che nel suo libro Vita di Pitagora riporta alcuni dei più famosi aforismi del maestro, la cui brevità racchiude una saggezza non rilevabile a prima vista, ma soltanto dopo una lunga meditazione.
Controlla la tua lingua, prima di ogni cosa, seguendo gli dei. Del vento che soffia, adora il suono. Non offrire la tua mano destra al primo che capita. Fai sacrifici, e adora, a piedi nudi. Se perdi il pubblico favore, cammina lungo sentieri nascosti. Non tagliare il fuoco con la spada. Togliti da dosso ogni bottiglia d’aceto. Non fare un passo oltre la trave che equilibra. Lasciata la tua casa, non voltarti indietro che le furie saranno alle tue calcagna. Non mangiare il cuore.
Il pentacolo, uno dei grandi simboli della magia, era il segno di riconoscimento dei pitagorici che lo chiamavano Salute. Uno dei simboli pitagorici meno conosciuti invece era la T, la cui barra superiore stava a indicare le due vie: le strade che si dividono, la sinistra verso la conoscenza terrena, la destra verso quella divina. In molti paesi questa lettera è il simbolo della vita e nel deserto segnala la presenza dell’ acqua.Vale la pena ricordare che recenti scoperte nel campo della fisica quantistica, della meccanica delle onde, oltre naturalmente alle teoria della relatività, hanno portato alcuni scienziati contemporanei a definirsi neopitagorici. Pitagora e Confucio (550- 478 a.C.) erano contemporanei e il grande libro cinese dello I-Ching (Il libro dei mutamenti) tenuto in alta considerazione da Confucio, e ancora oggi molto consultato come libro di divinazione, contiene, secondo l’Enciclopedia Britannica, elementi di numerologia, mescolati a elementi di realtà vicini al pensiero pitagorico.
Pitagora stesso non ha lasciato scritti nè religiosi né mistici, ma nella sua lunga vita ha istruito moltissimi discepoli e i suoi insegnamenti sono stati seguiti per secoli dopo la sua morte. Le ferree regole di segretezza imposte ai suoi seguaci hanno fatto si che gli scrittori in seguito attribuissero alla sua figura troppa importanza facendolo diventare una specie di divinità. Benjamin Farrington nel suo libro Scienza e politica del mondo antico racconta che Pitagora credeva nella divinazione per mezzo delle stelle, dei sogni, delle allucinazioni e del delirio, del volo degli uccelli, delle viscere degli animali sacrificati, e anche di alcune piante e verdure. «Il filosofo Epicuro», osserva lo scrittore, «al contrario fu l’unico a rifiutare queste false Scienze e ad attaccare i seguaci». Duecento anni dopo la morte di Pitagora, Epicuro fu il primo, nella sua scuola di Atene a «organizzare un movimento per la liberazione dell’ umanità dalla superstizione.» Ma a parte questa critica sono ben pochi quelli che non hanno parole di ammirazione per il filosofo, da tutti considerato uno degli uomini più illuminati della sua epoca.
Pitagora fu il primo maestro a tenere una scuola dove gli allievi si aiutavano a vicenda, dove si imparava ad avere dimestichezza con la matematica, la musica e l’astronomia. La prima regola che insegnò ai suoi discepoli fu il silenzio, condizione essenziale per la concentrazione. «Era Pitagora», dice Manly P. Hall, «la personificazione del potere, della maestà al cospetto del quale tutti si sentivano umili, soggiogati…» La sua influenza sulle persone che lo circondavano era enorme, e una lode di Pitagora riempiva i discepoli di estasi, addirittura un suo seguace si suicidò quando il maestro si era momentaneamente irritato per una sua manchevolezza. Pitagora fu così scosso da tale tragedia che non proferì più parole scortesi, ne critiche ad alcuno.
Che altro aggiungere, una visita a Samo, anche se breve, permette al visitatore di entrare in qualche modo in sintonia con Pitagora, uomo di grandi doti e saggezza il cui nome rimane sovrano negli annali del mistero e della magia.
E con questo possiamo terminare il nostro soggiorno a Samo e prepararci per un altra destinazione, vi prometto cari lettori del mistero che non sarà un viaggio lungo, giusto qualche ora…Nel frattempo buona lettura e alla prossima!
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Una replica a “Pitagora: Misticismo e Creatività a Samo #2 🏛️”
[…] ●Proseguiamo il nostro viaggio tra le isole dell’ Egeo alla ricerca di fatti e notizie tra le leggende che riguardano Pitagora, Ippocrate, Platone e Atlantide, terra del mito per eccellenza. Ci siamo quindi fermati sull’isola di Samo, la partia dei numeri e della musica dove nacque e visse una parte della sua vita il maestro Pitagora. Con lui abbiamo approfondito le influenze della matematica e della musica sul misticismo, abbiamo visto come veniva utilizzata la magia della musica per curare le malattie e costruire le città. La Magia dei Numeri: Pitagora e Samo #1, Pitagora: Misticismo e Creatività a Samo #2 🏛️. […]
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