Sfogliamo i segreti del Libro dei morti degli antichi Egizi

Oggi nuovo articolo della rubrica inchiostro nerofumo.

Abbiamo visto insieme le tradizioni legate alla morte degli antichi popoli mesopotamici che abitarono i fiumi Tigri ed Eufrate ma basta che ci spostiamo lungo il fiume Nilo che le tradizioni cambiano in modo radicale e la visione dell’aldilà diventa totalmente diversa.

Una piantina della zona per non perdervi. 

Gli antichi egizi espressero la loro visone della morte basandola sul mito di Osiride un’antica divinità che, abbreviandovela molto, fu ucciso dal suo fratello malvagio Set e riportato in vita dalla moglie e sorella Isis. Gli egizi credevano che, nel momento della morte, la loro vita sarebbe stata soppesata da un tribunale composto dalle quarantadue divinità principali ed erano convinti che il giudizio finale di Osiride potesse garantire loro l’immortalità. L’aldilà divenne quindi un semplice proseguimento della vita terrena. 

Gli antichi egizi facevano molta attenzione alla morte e svilupparono diversi rituali, alcuni molto elaborati, per assicurarsi un felice trapasso. Un esempio rappresentativo di questa attenzione al viaggio ce lo ha mostrato la tomba del re Tutankhamon, ritrovata intatta dagli archeologi.

Re Tut si assicurerà che il suo popolo intenda gli insegnamenti nel modo corretto anche se sa che è impossibile.

Oggi però parliamo di un libro, più precisamente del Libro dei morti. In realtà non è un libro come lo intendiamo noi ma si tratta di una raccolta di formule magiche e racconti che venivano scritti e illustrati su lunghissimi fogli di papiro.

La tradizione dei testi funerari nell’antico Egitto è molto più antica rispetto al Libro dei morti (usato in modo stabile dal 1550 a.C.), ci sono i testi delle piramidi e i testi dei sarcofagi che però non erano scritti su papiri ma incisi nella pietra delle piramidi e all’interno dei sarcofagi. Alcune formule utilizzate in tali antichi testi oggi non sono state ancora pienamente comprese e alcune formule restano un mistero perché sono stati trascritti geroglifici oscuri, inusuali che indicavano l’uso di un linguaggio molto antico. 

Solo una parte delle formule più antiche verranno riportate anche nel Libro dei morti, le altre caddero in disuso e vennero sostituite da composizioni più recenti.

Alcune divinità.

Ci sono pervenute molte versioni del Libro dei morti ma quella più famosa è quella conservata presso il museo egizio di Torino, una delle prime ad essere studiate e tradotte. Si tratta del papiro di Iuefanhk lungo diciannove metri ed è una delle versioni più complete e meglio conservate che abbiamo oggi. 

La definizione di Libro dei morti è moderna, gli antichi egizi chiamavano queste composizioni ru nu pereth em heru o Libro per uscire dal giorno. Erano formule magiche che servivano per concedere al defunto di superare degli ostacoli che gli avrebbero potuto impedire di raggiungere la Duat, il regno dei morti per poi assicurarsi la vita immortale nei campi di Iaru. 

Lo studioso che per primo affrontò lo studio del Libro dei morti di Iuefanhk fu Richard Lepsius. Sarà lui a dare il nome che ancora oggi usiamo e suddividerà il libro in centosessanta capitoli come ancora oggi viene suddiviso da chi lo studia. Impresa monumentale visto che tradotto è lungo la bellezza di settecento pagine.

La maggioranza delle formule magiche sono finalizzate al momento in cui il defunto si troverà davanti a Osiride. Secondo la tradizione riportata dal libro il defunto viene fatto entrare in una cappella e viene accolto da Maat dea della giustizia. Sulla bilancia verrà posto il cuore del defunto e dall’altra parte una piuma. Se il cuore sarà leggero potrà proseguire per i campi di Iaru, se è più pesante Ammit divora il cuore e impedisce il viaggio del defunto. Il giudice supremo sarà Osiride, risorto dalla morte e sovrano dell’oltretomba. Il dio Thot  prende nota di quanto accade e altre quarantadue divinità giudicano l’operato del morto quando era in vita. Le formule del libro sarebbero dovute servire a dare le risposte più opportune durante l’interrogatorio. (Ma non solo, date un’occhiata alle curiosità.)

La pesatura del cuore 

Il papiro, come già vi ho detto, è lungo diciannove metri ed è esposto in una lunga teca all’entrata del museo. Non è un libro che veniva prodotto in serie come lo intendiamo oggi ma ogni persona, quando preparava il suo corredo funerario, a seconda della disponibilità economica di cui poteva godere, decideva la lunghezza, la disposizione delle formule ed eventuali rappresentazioni da inserire. C’erano diverse botteghe che si occupavano di produrlo e ognuno poteva scegliere la versione più adatta alle sue esigenze.

Siamo alle solite, un paio di geroglifici sbagliati e ti ritrovi con una mummia in giro per casa.

Qualche curiosità in più. 

Le formule magiche finora giunte a noi sono centonovantadue ma nessuno dei manoscritti ritrovati le contiene tutte. C’erano formule per tutti gli usi: quelle per la protezione, altre per l’identificazione dell’anima, altre da recitare durante la pesatura per favorire un esito positivo. Non è mai stato identificato il primo autore di tali formule e gli antichi sacerdoti egizi si sono guardati bene dal nominarlo, facevano riferimento a un antico dio originario di Ermopoli, probabilmente Thot. L’efficacia del libro dei morti riguardava gli spiriti dei defunti e il mondo dell’aldilà. Le formule non erano intese per essere usate da un vivente, non avrebbero avuto alcuna efficacia. 

Nel libro sono elencati i nomi delle entità malvagie che avrebbero potuto ostacolare il viaggio del defunto, la tradizione esoterica egizia voleva che pronunciare il nome della creatura malvagia equivalesse ad avere il potere di obbligarla a fare ciò che si voleva, e qui potremmo aprire una parentesi sulle tradizioni della demonologia cristiano cattolica che hanno ispirato il mio ultimo romanzo…ma forse è il caso che ve ne parli più avanti. Sappiate solo che per gli egizi la pratica magica e la religione erano una sola cosa: creazione e parola (scritta e parlata) erano la stessa cosa. 

Bene e anche oggi ci siamo divertiti con i misteri legati alla morte e con un libro dalle origini altrettanto misteriose.

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Alice Tonini 

Scopriamo insieme le prime storie di fantasmi: torniamo nell'antica mesopotamia

 Oggi torna la rubrica inchiostro nerofumo con un
super articolo e come al solito parliamo di horror e parliamo di
storia.

Partiamo subito con una domandona:
credete nell’esistenza dei fantasmi?

Potreste rispondere a questa domanda in
due modi: chi crede al soprannaturale e chi invece etichetta tutto
come cosa per creduloni.

Ma se facciamo qualche passo indietro
nel tempo e andiamo tra il Tigri e l’Eufrate troviamo una intera
civiltà che per più di tremila anni si è evoluta con l’assoluta
certezza dell’esistenza dei fantasmi e che ogni giorno aveva a che
fare con demoni e spiriti.

Una tavoletta mesopotamica di 5.000
anni è stata scoperta dagli archeologi inglesi qualche anno fa e
riporta trascritte le prime e più antiche storie di fantasmi di cui
siamo a conoscenza.

Oggi sappiamo che nell’antica civiltà
mesopotamica i fantasmi erano parte della vita di tutti i giorni. Ma
quali erano le leggende e le tradizioni assire e babilonesi legate ai
fantasmi?

L’antica Mesopotamia corrisponde agli
attuali territori di Iraq e Siria (circa). La civiltà preistorica di
cui parliamo ha trascritto molte informazioni che sono giunte sino a
noi, dalle registrazioni contabili commerciali fino alla mitologia,
utilizzando la scrittura cuneiforme, uno dei primi sistemi di
scrittura conosciuti. Gli scribi usavano tavolette di argilla e
iscrivevano le storie raccontandoci di come i fantasmi fossero una
forza soprannaturale molto influente nella vita delle persone:
potevano richiedere sacrifici, causare malattie e portare sfortuna.

La dea dell’amore ma anche della guerra Ishtar si assicurerà che capiate tutto alla perfezione!!

I fantasmi risorti dei morti non erano
ospiti casuali per gli antichi mesopotamici, invece di passare
inosservati facevano apparizioni frequenti ed erano parte del mondo
naturale come le piante o gli animali.

Lo sapevate che i cimiteri in
mesopotamia erano molto rari? I morti venivano seppelliti accanto
alla casa o addirittura all’interno dell’abitazione. Quando qualcuno
manifestava segni di una infestazione si credeva fosse a causa di
questi antenati seppelliti sotto i piedi. Questa vicinanza voleva
anche significare che i fantasmi erano parte della routine familiare
di ogni giorno. In famiglia c’era chi cucinava, chi puliva, e poi
c’era un membro responsabile per la cura delle relazioni con i
defunti. Solitamente era il figlio maggiore che ogni giorno si recava
a portare le offerte sulle sepolture degli antenati. Se non lo faceva
si pensava che l’anima del defunto si sarebbe potuta perdere
nell’aldilà e tornare a vendicarsi sulla famiglia irrispettosa.

La religione mesopotamica credeva che i
familiari defunti fossero bloccati nella morte, in una dimensione
dove non invecchiavano. Le offerte più diffuse prevedevano venissero
serviti loro cereali arrostiti e birra prodotta con cereali cotti.
Quella delle offerte di cibo e degli snack con i cereali è una
tradizione molto antica che prosegue ancora oggi. Sugli scaffali dei
supermercati troviamo snack con cereali di ogni forma e colore e in
India, sulle rive del gange si trovano ogni giorno persone che
offrono cibo agli spiriti dei defunti.

Questa antica tavoletta faceva parte della biblioteca di un sacerdote esorcista, le immagini sono invisibili a occhio nudo ma appaiono solo se illuminate direttamente.  Rappresenta un fantasma che viene trascinato nel mondo dei morti. 

Ma torniamo a noi. Di solito uno
spirito che riceve regolarmente offerte non ritorna a disturbare i
vivi. Lo stato di chi moriva era una sorta di ibernazione durante la
quale disturbare i vivi era semplicemente impossibile. Se sepolti
correttamente i fantasmi restavano in uno stato di dormienza che
continuava fintanto che la famiglia avesse continuato a fare le
offerte rituali nel modo corretto. 

Alcune testimonianze ci raccontano
che i vivi e i morti potevano comunicare nel sonno, la relazione tra
il sonno e la morte era tanto profonda che sono stati trovati
incantamenti per invocare l’aiuto dei fantasmi per addormentarsi. Ai
bambini deceduti che erano senza pace venivano cantate canzoni e
incantesimi per calmarli e mandarli a dormire. Ai fantasmi dei
bambini inoltre non era permesso di svolazzare in giro come i
fantasmi più anziani, così esistevano invocazioni che permettevano
di spedire questi spiriti in un lungo e riposante sonno. Simili
invocazioni erano utilizzate anche per cacciare i demoni e
prosciugare le energie di fantasmi maligni.

Fantasma o demone è sempre bene chiamare un esorcista. 

Il reame del non ritorno o Erkala era
il posto dove tutti gli abitanti defunti della Mesopotamia erano
allocati dopo la morte. Quegli spiriti che cercavano di fuggire per
tornare a vivere erano severamente puniti. Il dio del sole Shamash
puniva i fantasmi che fuggivano, prendeva le loro offerte e le
distribuiva alle anime dei dimenticati. La società mesopotamica era
molto diversificata ed esistevano diverse interpretazioni
dell’aldilà.

Una opera importante da questo punto di
vista è l’Epopea di Gilgamesh che apre uno scorcio sul
folklore mesopotamico. Il re Gilgamesh privato dalla morte della
compagnia del suo migliore amico Enkidu parte alla ricerca della
pianta che dona l’immortalità. Fallisce nell’impresa e accetta il
suo destino di uomo mortale. Dopo la morte Gilgamesh era felice di
poter stare con lo spirito del suo amico ma si accorge che molti spiriti di defunti soffrivano ed erano in agonia perché erano stati dimenticati da
tutti. Per non causare questa sofferenza, nasce l’usanza mesopotamica di seppellire i defunti in
casa.

Gilgamesh

Un’altra credenza era quella che i
bambini appena nati avessero un aldilà migliore di quello degli
adulti. Potevano giocare quanto volevano, avevano tavoli fatti d’oro
con miele e burro sempre a disposizione.

Fino ad ora quindi abbiamo visto che i
defunti avrebbero dovuto dormire o aggirarsi nell’aldilà facendosi
gli affari propri. Purtroppo però gli incidenti potevano capitare e
un defunto poteva ritornare per varie ragioni. Ad esempio i suoi
diritti di sepoltura erano violati o era avvenuto qualcosa di
sbagliato al momento della morte o le offerte non venivano presentate
regolarmente. Se il loro aldilà era disturbato causavano caos e
torturavano i vivi. A questo punto vi apro una piccola parentesi, lo
sapete che le leggende sui vampiri che ancora oggi sono vive in molte
comunità dell’Europa dell’est derivano proprio da queste antiche
tradizioni preistoriche. Ma ci torneremo con un altro articolo.

Fantasma o demone magari alcuni preferiranno l’esorciccio.

Ereshkigal, la regina dei morti che
presiede sull’aldilà può dare agli spiriti permessi speciali per
tornare sula terra. Ella aveva la responsabilità di tenere separati
i vivi e i morti. I Gheedeen erano coloro che tornavano dalla morte.
Si riteneva che questi potessero viaggiare avanti e indietro dal
reame dei morti e tormentavano i vivi. Comunque sia di sicuro chi
aveva subito una morte ingiusta sarebbe tornato a tormentare i
colpevoli. Mentre chi fuggiva dall’aldilà era riacchiappato, punito
e rispedito nella posizione che gli spettava tra i morti. Anche oggi
nella religione indù, la mitologia presenta diversi aspetti che
ricordano l’antica visione mesopotamica.

Se l’avesse sepolto per bene magari non tornava.

Come facevano gli antichi a sapere che
un fantasma era vicino a loro?

Molti vedevano nella malattia un
indicatore della presenza di fantasmi. Come se la malattia non fosse
sufficiente a fare stare male una persona si credeva che quella
persona volontariamente o meno avesse commesso degli errori e ora un
fantasma la stava punendo infliggendo sofferenze fisiche. Comunque
esisteva la possibilità di invocare i fantasmi degli antenati della
famiglia per essere aiutati. Oggi in india questa credenza è ancora
viva.

La maggioranza degli antichi
mesopotamici desiderava solo scacciare i fantasmi fastidiosi e
mantenere tranquilli quelli che dormivano. Pochi altri credevano che
riuscire a contattare i fantasmi potesse portare benefici, erano
convinti delle potenzialità del soprannaturale nonostante sapessero
benissimo di correre elevati rischi. Esistevano quindi sacerdoti
esorcisti e necromanti.

La pratica della necromanzia, la
comunicazione con i morti, era diffusa tra gli antichi mesopotamici.
I rituali dovevano essere eseguiti alla lettera da persone esperte
perché avrebbero messo il praticante in una situazione precaria. Una
tavoletta cuneiforme ritrovata dagli archeologi conteneva un
incantesimo per invocare i fantasmi insieme ad una ricetta per un
unguento da spalmarsi sugli occhi insieme ad avvertimenti e
istruzioni dettagliate per eseguire correttamente il rituale.

Gli antichi sacerdoti esorcisti possono essere paragonati ai moderni Gostbusters, in caso di infestazione arrivavano loro.

La massima aspirazione per un defunto
era la pace dell’aldilà. Una vita turbolenta aggirandosi tra i vivi
era considerata una punizione. Questo accadeva quando gli dei si
dimenticavano dello spirito o quando la famiglia non eseguiva i
propri sacrifici per i morti.

In accordo con la tavoletta di cui vi
ho raccontato all’inizio gli antichi mesopotamici credevano in molti
fantasmi, e riporta una lista degli spiriti più invocati in caso di
necessità. Qualsiasi incidente poteva creare un fantasma e il
fantasma poteva occasionalmente trasformarsi in uno spirito vagante
come atto di vendetta verso chi gli aveva fatto un torto e se questo
valesse ancora oggi credo che di spiriti vaganti sarebbe pieno in
giro.

Tavoletta rappresentante le divinità con i loro simboli

Diverso è il discorso per quanto
riguarda i demoni. 

Le radici della moderna demonologia affondano
nella mitologia mesopotamica. I demoni erano creature totalmente
diverse dai fantasmi, con delle sembianze animali mostruose e
anch’essi potevano entrare nelle case dei vivi per tormentarli. 

Per
liberarsi di loro venivano commissionati amuleti in metallo o di
ossidiana con incisi incantesimi che potevano essere indossati o
appesi in casa come protezione. Nel caso tutto questo non servisse si
acquistavano delle statuette con le sembianze del demone per
spaventarlo e mandarlo via. Se anche questo non serviva esistevano i
sacerdoti esorcisti che entravano in casa e recitavano una lunga
fila di nomi demoniaci finché non trovava il nome del demone e
riuscivano a mandarlo via. Forse non sapete che nel film L’esorcista la bambina è posseduta dal demone Pazuzu che compare anche in altri film e documentari sui fantasmi presentato come il re dei demoni che tormentano i vivi. Nel film la bambina sarebbe stata posseduta a causa di una statuetta in metallo raffigurante il demone. In realtà Pazuzu era un entità demoniaca che assicurava assoluta protezione  contro qualunque altro demone e tenerne in casa una immagine assicurava una ottima protezione contro le visite di demoni e fantasmi.

Rappresentazione di Pazuzu 

Un’altra curiosità, forse non sapete che
la lingua che veniva utilizzata per trascrivere gli incantesimi non era quella
‘ufficiale’ ma viene chiamata dagli studiosi ‘mumbo jumbo’ per via
dei suoni che produce quando la si pronuncia. Sono in molti a collegare quelle liste di nomi in
mumbo jumbo alla Chiave di re Salomone, un famoso testo
esoterico la cui versione originale è andata perduta. La leggenda
narra che gli incantesimi siano stati scritti da re Salomone in
persona e forse non sono molto lontani dalla realtà. Le versioni
odierne del libro però sono tutte rimaneggiate e riscritte, e oggi è impossibile risalire ad una prima versione originale.

Spero che l’articolo di oggi vi sia
piaciuto.

Buona lettura e alla prossima.

Alice Tonini

La morte e gli Indiani d'America: tra leggende, tradizioni e sepolture

Rieccoci con il nostro appuntamento dell’horror e dei temi legate alla letteratura horror con la rubrica Inchiostro Nerofumo. La volta scorsa abbiamo parlato della morte vista dal punto di vista di noi uomini moderni, oggi ci interessano gli uomini primitivi agli albori della nostra civiltà.

L’uomo preistorico faticò non poco a
comprendere la morte; la storia dell’antichità è costellata di ritrovamenti che testimoniano come i tentativi di avvicinarsi al momento
finale della vita umana abbiano dato vita a miti, leggende e
tradizioni diversi e a volte di difficile comprensione, o almeno così ci
dimostrano gli scavi archeologici che hanno riportato alla luce le antiche sepolture.

Uno dei più antichi popoli di cui
abbiamo ancora tracce recenti sono gli Indiani d’America. Per loro la
religione era talmente integrata nell’aspetto socio-culturale della
vita quotidiana che si possono tranquillamente paragonare agli Amish
odierni anche se in chiave meno opprimente. 

Morte e onore vengono considerate alla stessa stregua, ma oggi ho imparato che non sempre è così. Cit. da L’ultimo dei Mohicani.

Ricordiamo che il
più antico scheletro di un nativo americano mai trovato risale a
9.000 anni fa, si tratta dell’uomo di Kennewick ritrovato nel letto
del fiume Columbia nello stato di Washington. Parliamo quindi di tradizioni,
usi, miti e leggende con radici antichissime, la cui origine si perde nei
secoli prima di Cristo. Lo studio della preistoria degli indiani d’America è
difficile e complesso a causa della molteplicità delle tribù che si
divisero il territorio ma rende bene l’idea dei tanti modi diversi in
cui i nostri antenati potevano interpretare la morte prima
dell’avvento delle grandi religioni.

Le popolazioni presenti in nord America
nell’epoca precolombiana vivevano in perfetta armonia con la natura e
praticavano una religione complessa con saltuari aspetti sciamanici. Bisogna
tenere a mente il legame particolare esistente tra individuo e
collettività e tra individuo e natura, entrambi caratterizzanti la
cultura degli indiani d’America e il contrasto con il nostro stile di
vita occidentale per cui tali legami sono superficiali.

Il dipinto (come tutto quello che riguarda i nativi americani) è coperto dal copyright, ringrazio di cuore la fonte 

Il nord America è sconfinato, il
numero delle tribù indiane è grande e la storia di queste tribù
potrebbe davvero riempire libri su libri. Porto quindi solo un paio
di buoni esempi che ovviamente non possono essere esaustivi di tutto l’argomento vista la vastità.

Il primo esempio tratta delle credenze della tribù dei Lakota
o chiamati in modo spregiativo dai bianchi Sioux che occuparono i
territori del nord e sud Dakota, parte del Montana, Nebraska, Wyoming
e Colorado. Tra le altre tribù avevano grande fama di guerrieri
invincibili.

La religione Lakota nel tempo ha
assorbito idee e tradizioni di altre tribù confinanti e popoli
conquistatori mantenendo nel tempo intatta la propria identità, persino le
sofferenze inflitte al popolo dal governo americano sono diventate
oggi un’importante riferimento culturale. Qui non possiamo trattare
in lungo e in largo della religione Lakota ma vediamo quali elementi sono caratteristici del
rapporto di questa tribù con l’aldilà.

Qui ci basti sapere che una
divinità chiamata nella nostra lingua Piccolo Bisonte Bianco apparve ai cacciatori Lakota e insegnò loro le sette cerimonie
sacre alla base della loro religione. Per i Lakota ogni uomo nasce
con quattro aspetti dell’anima: il sicun, la forza immortale che
permette al corpo di formarsi e che alla morte ritorna al nord per
attendere un nuovo concepimento; il tun, il potere di trasformare
l’energia da visibile in invisibile; il ni, il respiro che abbandona
il corpo con la morte; il nagi, l’ombra che alla morte percorre la
via degli spettri per unirsi agli antenati e riprendere la vita
tradizionale.

I rituali e i miti si sviluppano in
serie di sette e quattro, sono ciclici come secondo loro era la vita.
Le Sette cerimonie sacre sono sopravvissute fino ai giorni nostri
nonostante i tentativi di repressione ad opera del governo degli
stati uniti nel XIX secolo. 

La cerimonia che riguarda il passaggio
all’aldilà è la cerimonia del trattenimento del fantasma (Wanagi
Wicagluhapi) e viene eseguita per i defunti. La credenza presso i
Lakota è che lo spirito di un defunto rimanga per un anno nel luogo
della sua morte e il parente deve eseguire la prova del lutto
(wasigla) e deve conservare una ciocca dei suoi capelli avvolta in
pelle di daino. Lui/lei deve esporre l’involucro al sole durante le
belle giornate, ripararlo dal vento e donargli ogni giorno cibo.
Colui che trattiene lo spirito deve dedicare tutto il suo tempo a
questo scopo. Dopodiché trascorso un anno dal decesso lo spirito
viene lasciato libero di viaggiare verso l’aldilà. In questa
occasione la famiglia indice una grande festa invitando i parenti e
distribuendo regali a chi durante l’anno ha sostenuto il custode
dello spirito. Oggi questa complessa cerimonia è sostituita dalla
Festa del Ricordo (Wokiksuye Wohanpi) rito simile anche se meno
impegnativo. Dopo la veglia e la sepoltura si celebra un ulteriore
rito: parenti e amici portano cibo sul luogo della veglia dove
resteranno tutta la notte per aiutare e
consolare la famiglia. Ai giorni nostri comunemente il defunto viene
sepolto nei cimiteri cristiani, per cui alla cerimonia tradizionale
si aggiunge quella cristiana.

La foto della sepoltura ( come tutto quello che riguarda i nativi americani) è coperta da copyright, ringrazio di cuore la fonte.

Per rendervi conto delle differenze
religiose tra una tribù e l’altra accenno anche alle usanze Navajo,
un popolo che vive oggi nell’area degli stati uniti sud occidentali
chiamata Four Corners e sono la popolazione nativa più consistente
sia per numero che per territorio. A differenza di altre tribù come
i Lakota la loro visione individualistica li ho portati a celebrare
festività che hanno l’obiettivo di ristabilire l’ordine dinamico e
l’equilibrio delle cose. Secondo loro ogni cosa è abitata dal Vento
Sacro (energia vitale) e ogni essere vi partecipa in comunanza. Da
qui la loro credenza che nessuno stato dell’essere è fisso. Il
rapporto tra esistenza terrena e ultraterrena è fluido e in costante
mutamento, i loro miti e le loro leggende parlano di un futuro nel
quale i defunti torneranno per popolare con i vivi le terre che un
tempo erano delle tribù prima dell’arrivo dei bianchi.

Queste sono solo due delle complesse
tradizioni degli indiani d’America ma comune ad ogni tribù era la
concezione della morte come un viaggio che veniva accompagnato da usi
e riti dalle radici che si perdono nei secoli. I Lakota
ritenevano che una persona in punto di morte vedesse il futuro, gli
Arapaho invece prevedevano il momento della propria morte in anticipo
di giorni. I Comanche consideravano le donne che morivano di parto
alla stregua dei migliori guerrieri. Presso tutte le tribù infatti
morire in battaglia era molto onorevole e prima di scendere in guerra
era fondamentale essere ben preparati al viaggio che sarebbe seguito:
capelli intrecciati, volto dipinto, abiti in ordine, armi affilate.

Non è come nasci, ma come muori, che
rivela a quale popolo appartieni. Alce nero, Lakota 1890

Le tecniche di sepoltura erano diverse
non solo tra tribù ma anche a seconda delle stagioni le usanze
differivano, ad esempio in inverno non si seppellivano i morti in
terra perché il terreno era congelato. Nelle pianure il corpo era
esposto nella prateria su una alta piattaforma ricoperta da pelli, per
evitare che venisse assalito dagli animali. I pali che sostenevano la
piattaforma erano dipinti con simboli che ricordavano il defunto e
decorati con crini di cavallo. L’impalcatura veniva eretta tradizionalmente a ovest
per facilitare il viaggio verso l’aldilà. In alternativa il corpo si
issava sugli alberi avvolto nelle pelli e legato sulla biforcazione
dei rami più grossi.

Si potevano utilizzare anche gli anfratti
naturali come le crepe o le spaccature tra le rocce. In zone
difficilmente accessibili come il gran canyon e in queste zone si
portavano anche le ossa raccolte dopo che le intemperie avevano
consumato il corpo esposto nelle pianure o sugli alberi. La
cremazione era poco diffusa e riservata solo ai guerrieri caduti in
combattimento. In pochi casi accertati sappiamo di guerrieri Comanche
seppelliti sul campo di combattimento con tombe contrassegnate da
ossa e teschi di bisonte o in fosse sott’acqua dove erano contrassegnate da pietre. Tra i Pueblo i corpi erano deposti a terra e ricoperti di
sassi fino a formare un tumulo che veniva circondato da paletti.

Stavo pensando che di tutte le piste di questa vita la più importante è quella che conduce all’essere umano. Penso che tu sei su questa pista e questo è bene. Cit. da Balla coi lupi.

Il significato di quanto vi ho
raccontato fino ad ora rimane incerto. Alcuni scienziati immaginano
gli uomini preistorici che credevano in una sorta di resurrezione o
in un viaggio ultraterreno perché seppellivano cibo, oggetti e
ornamenti. Altri suggeriscono il significato dei colori che
utilizzavano per dipingere il corpo del defunto quando lo preparavano. Altri fanno ipotesi
riguardo il significato delle posizioni in cui vengono ritrovati i
corpi.

Non conosciamo esattamente il
significato di tutto quello che gli archeologi hanno trovato, però
quello che ci interessa qui sono le testimonianze che raccontano come gli uomini primitivi all’inizio dell’esistenza umana
svilupparono idee, miti e tradizioni per riconciliarsi con la morte.

Un buon romanzo che parla degli indiani può essere considerato il classico del 1826 L’ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper. Oppure Balla coi lupi di Michael Blake, edito in Italia dal 1991 è interessante anche se è più difficile da trovare. Magari se siete fortunati su una bancarella dell’usato lo potete adocchiare. Da entrambi sono stati tratti dei bellissimi film ma evito di parlarne, magari un’altra volta.

Grazie mille e buona lettura a tutti!!

La morte è destino: comprenderla oggi

 Oggi torna la rubrica dedicata ai temi della narrativa horror: inchiostro nero fumo. L’articolo tratta del tema della morte visto con gli occhi di noi uomini moderni e della letteratura contemporanea.

Vi devo però avvisare che si tratta di una tema trasversale a tutti i generi e troppo ampio per essere rappresentato da una manciata di titoli o autori. Il tema della morte per il genere horror è un caposaldo ma anche nel thriller e nel fantasy le opere che trattano questa tematica in modo serio e approfondito sono molte.

Definire cosa si intende per morte è difficile, quasi impossibile. Per uno scienziato la definizione è diversa rispetto a quella che può dare un artista o un poliziotto. Vedremo nei prossimi articoli della rubrica che per le donne e gli uomini primitivi il lutto era vissuto in modo molto diverso rispetto a come lo viviamo oggi. Noi moderni crediamo di sapere tutto sulla morte eppure quando ci troviamo coinvolti in prima persona nella
perdita di una persona cara ci troviamo in difficoltà. La scienza
descrive dettagliatamente e morbosamente ogni più piccolo dettaglio
di quanto accade al nostro corpo quando le funzioni vitali cessano eppure quello che accade ci fa paura, esiste persino la fobia della morte chiamata tanatofobia che colpisce milioni di persone in tutto il mondo.

I ricercatori sostengono che
esiste attorno all’argomento “morte” quella che è stata definita
una congiura del silenzio. Non se ne parla e chi lo fa viene
censurato, messo a tacere o isolato. Se da un lato questo permette di non pensarci troppo o troppo spesso,
dall’altro ci toglie la possibilità di riflettere attorno ad un
evento naturale e inevitabile con la conseguenza di trovarci
totalmente impreparati davanti al momento della perdita di una persona cara.

Fino a qualche decennio fa il lutto riguardava non solo tutta la famiglia ma anche
l’intera comunità, ogni compaesano partecipava portando le sue condoglianze e la
sofferenza era cosa normale e di pubblico dominio. Ad esempio c’era l’usanza, al passaggio del corteo funebre, di chiudere le serrande dei negozi e il negoziante restava in strada a portare le sue condoglianze. Oppure in Campania esisteva la tradizione dell’ “o’cunzuolo”. Il consolo era un dono portato alla famiglia in lutto da vicini, amici e parenti che consisteva in cibo pronto già cucinato o pacchi di caffè e zucchero per aiutare chi in quel momento si trovava in un momento difficile. 

Il lutto di una persona fino a qualche decennio fa doveva essere visibile anche agli altri, da qui l’usanza di vestirsi di nero o quella delle praefiche o piangitrici, donne e bambine che dovevano disperarsi durante i funerali. 

Le famiglie contadine del nord Italia osservavano la tradizione della veglia con il morto, giorno e notte alla luce di candele perennemente accese per assicurarsi che il suo spirito non restasse a vagare per casa. C’era poi l’usanza di coprire gli specchi per evitare che l’anima del defunto specchiandosi restasse intrappolata in questo mondo. Si tenevano aperte porte e finestre di casa per fare uscire lo spirito ma quelle dei vicini andavano tenute chiuse, si potevano spalancare solo dopo il funerale per evitare che lo spirito entrasse nelle case. Si lasciavano sedie vuote attorno alla bara per fare sedere gli antenati che desideravano partecipare alle veglie. Il camino di casa doveva essere coperto da un telo per evitare che entrassero uccelli a cavare gli occhi dal corpo e a portare malaugurio sulla famiglia e per lo stesso motivo la bara andava posta con i piedi del defunto verso la porta da cui sarebbe uscito al momento del corteo funebre.

Oggi tutto questo si sta perdendo, il lutto è
vissuto come evento privato e personale, qualcosa che bisogna
nascondere agli altri per il timore di essere giudicati.

In aiuto di noi homo sapiens moderni arrivano psicologi e ricercatori che ci raccontano come riusciamo a
elaborare il lutto nella nostra mente fin da bambini.

In Europa dopo la seconda guerra
mondiale, Maria Nagy, psicologa e ricercatrice, chiese a 378 bambini
ungheresi dai tre ai dieci anni di raccontarle cosa pensassero della
morte.

I bambini più piccoli, che
soprannominarono la ricercatrice zia morte, discussero con lei delle
loro opinioni e fecero dei disegni da regalarle. I bimbi più grandi
riuscirono a scrivere su carta ogni cosa che veniva loro in mente.

Nagy studiò le loro rispose e giunse
alla conclusione che esistono tre livelli di comprensione del lutto.

I più giovani da i tre ai cinque anni
tendono a essere curiosi e a chiedere informazioni ai più grandi
riguardo funerali, bare e cimiteri. Per loro la morte è
semplicemente la vita che prosegue ma in un modo diverso rispetto a
quello che accade tutti i giorni: le persone morte non possono vedere
o sentire come i vivi, non fanno niente tutto il giorno e non hanno
nemmeno fame. E loro possono persino tornare se vogliono. I bambini
più piccoli pensano alla morte come a qualcosa di noioso, non
divertente, e al peggio la considerano sinonimo di solitudine e
spavento.

Dai sei anni i bambini realizzano che è uno stato finale ed entrano nella seconda fase. In questa
si realizza che è definitiva e alcuni di loro pensano di potergli sfuggire se sono intelligenti, attenti o fortunati.
Christy Ottaviano ricorda che quando era alle elementari

Christy potrebbe aver smesso perché è
entrata nella terza fase, quella della comprensione della morte. I
bambini realizzano che non è solo il passo finale di ogni vita ma è
anche inevitabile: tutti muoiono anche se intelligenti, attenti e
fortunati. Anche le persone che trattengono il respiro quando
camminano vicino a un cimitero. scrive
un bambino di dieci anni. Un’ altro scrive. La terza fase, che è anche l’ultima inizia attorno ai
dieci anni e continua per tutta la vita.

Oggi la psicologia ha coniato il
termine di “death education” o educazione alla morte per indicare un
percorso di supporto psicologico che accompagna la persona sofferente
nella gestione del lutto. 

Le persone oggi devono fare i conti anche con la spettacolarizzazione
mediatica che spesso ama raccontare solo i tratti più violenti, drammatici o macabri che accompagnano la dipartita di qualcuno perché sono quelli che più attirano l’attenzione. Persino
i film dell’orrore a volte non fanno un buon servizio alla nostra
comprensione ma alimentano fantasie irrazionali che hanno la sola conseguenza di alimentare la paura al posto di una sana riflessione.

Come ho già detto all’inizio dell’articolo il tema della morte nei romanzi è
trasversale a tutti i generi. Dal mainstream fino all’horror la morte
è protagonista di decine di romanzi. Difficile quindi indicare un
titolo, o una manciata di titoli, che da soli possano essere
rappresentativi di un tema così complesso e articolato trattato da
quasi ogni scrittore, ma proviamo lo stesso. Notevole è Rumore bianco
di Don Delillo, anche Sette minuti dopo la morte di Patrick Ness non è male, se preferite stare sui classici allora abbiamo L’ultimo
giorno di un condannato a morte di Victor Hugo, Edgar Allan Poe con
La morte rossa (…ma non solo…) e La metamorfosi di Kafka (di cui
abbiamo già parlato in un invito alla lettura). Ci sono libri illustrati per bambini come ad esempio L’isola del nonno di Benji Davies o Il sentiero di Marianne Dubuc. E chi più ne ha più
ne metta.

Anche per oggi è tutto, ovviamente si
accettano suggerimenti nei commenti. Ci vediamo nel prossimo post.

Buona lettura e alla prossima.

Alice Tonini

Ciò che è morto è morto: tra scienza, leggende urbane e credenze. Come si definisce la morte nella storia e nel folklore

Inauguriamo
oggi un nuovo spazio dedicato agli amanti del misterioso mondo
dell’horror, la rubrica “Inchiostro nero fumo” dove parleremo di
temi legati al mondo dell’horror dal punto di vista storico e
popolare. Sono articoli che non intendono avere nessun valore morale,
religioso o spirituale, né intendono turbare alcuno, si tratta di
semplici curiosità, di miti e leggende che ci racconteranno come è cambiata la visione e la percezione della morte nel tempo.

Il tema
di questo primo articolo è la morte, ovvero come è stata definita
la morte nella storia? Quali metodi venivano utilizzati per capire se
qualcuno era davvero morto ed è mai capitato che qualche persona
avesse finito per essere sepolta viva nonostante queste tecniche più o meno ingegnose? Tra miti, storia e leggenda vediamo cosa si può trovare
curiosando tra le fonti.

Oggi al
momento della morte viene rilasciato un certificato di morte, un
documento dal valore internazionale che serve per regolare i rapporti
tra i privati e la pubblica amministrazione. In pratica serve per
poter disporre del corpo del defunto, avere eventuali risarcimenti
assicurativi e godere di benefici ereditari. Questo è il modo con
cui si certifica la dipartita di una persona cara ma la storia
insegna che anche in tempi recenti è capitata la tumulazione di
persone che in realtà non erano affatto morte, anzi. Questo ci dice
che se qualcuno non respira o non si muove non è automaticamente
morto.

Ad esempio la signora Margaret Halcrow Erskine che ebbe salva la vita grazie
ai tombaroli. Siamo nella Scozia del 1674 e la signora che sembrava
morta venne tumulata dal sagrestano in una tomba poco profonda per
permettergli di tornare nella notte e di portarsi via i gioielli della defunta.
Mentre stava tentando di tagliare via il dito della signora per prendere
l’anello, ella si risveglia improvvisamente, causando la fuga precipitosa del
criminale. La storia ci dice che la signora ebbe poi una vita lunga e
felice, del nostro sagrestano-ladro non si seppe più nulla.

Una rappresentazione di quanto accadde alla signora Margaret. All’epoca il fatto fu celebre. 

E
ancora. Nel tardo 1500 in Inghilterra Matthew Wall venne creduto
morto finché durante il suo funerale i becchini non fecero cadere la
bara causando il suo risveglio. Nella Scozia dei primi anni del 1600
Marjorie Elphinestone fu creduta morta finché non si risvegliò
durante un tentativo di furto. Il ladro riuscì a fuggire e lei
quella notte se ne tornò a casa a piedi.

Ancora
nel 1860 si racconta che un passante sentì dei colpi provenire dalla
bara di tale Philomele Janetre. Avvisato il custode del cimitero la
bara venne aperta e tra lo stupore generale gli occhi dell’uomo si
mossero. Il signor Philomele morì il giorno successivo, sul serio stavolta.

Sempre a
metà del 1800 da Londra ci arriva la storia, che sembra più una leggenda urbana, di un medico che stava
per effettuare un autopsia su di un uomo-cadavere. Al primo taglio
l’uomo-cadavere si rianima, afferra il medico alla gola e lo fa
morire causandogli di un colpo apoplettico. L’uomo- cadavere invece
visse ancora a lungo. Si narra anche, a Londra, che nei primi anni del 1900 una
giovane ragazza venne lasciata nella bara aperta per 36 ore, finché
un parente medico si accorse che sembrava ancora in vita e intervenne per salvarla.

La storia di Margorie diffusa nel 1705 è in tutto simile a quella di Margaret. In questo caso si pensa sia una leggenda urbana d’epoca.

Gli
esperti danno spiegazioni diverse agli errori che si possono commettere
nelle dichiarazioni di morte, nei casi delle tumulazioni premature.
La scienza parla di thanatomimesis o morte apparente, di trance, di
overdose da narcotici, di concussione (intesa come produzione di
falsi documenti), di sincope o svenimento, di asfissia o mancanza di
ossigeno, di intossicazione.

Nel 1884
un medico britannico sul giornale Lancet offrì una
spiegazione meno scientifica e più umana dell’errore: ”Possono
essere incolpate per la tumulazione prematura di persone non proprio
morte la fretta e la mancanza di cura”. Nel 1995 nel libro Death
to Dust: what happens to dead bodies?
l’autore sostiene che
quanto detto sul Lancet nel 1800 sono parole che “suonano ancora vere
oggi”, un pensiero terribile per chi è ancora in vita. Per
tranquillizzarvi però ci tengo a precisare che gli errori oggi sono
molto rari.

Un vecchio numero del Lancet, rivista medica fondata nel 1832 e pubblicata ancora oggi.

Il Viele
memorial a West Point in Us è dove Egbert Ludovicus Viele ha fatto
costruire il memoriale per lui e la moglie. Si dice che l’uomo fosse
terrorizzato all’idea di essere sepolto vivo e quindi collegò un campanello
dall’interno della bara fino alla casa del custode del camposanto in
modo che se si fosse risvegliato avrebbe ricevuto soccorso. Quando
morì nel 1902 il suo corpo venne posto in un sarcofago di pietra e
portato nel memoriale. C’è da dire che il campanello da allora non
suonò mai, anche se capitò un paio di volte che il custode di notte
scambiasse il suono del telefono per quello del campanello spaventandosi non poco. Oggi il
campanello non è più connesso.

Ecco il Viele memorial, mausoleo dalle forme originali, come era originale anche il proprietario. 

Nel
tempo l’uomo in ogni cultura ha sviluppato rituali e “attrezzi”
per evitare una sepoltura prematura. I popoli antichi attendevano i
segni della decomposizione prima di sotterrare o cremare il cadavere.
I romani chiamavano ad alta voce il nome del defunto tre volte prima
di metterlo sulla pira funeraria. Gli antichi ebrei mettevano i corpi
in caverne aperte che venivano controllate regolarmente. In epoca
vittoriana si infilavano spilli sotto le unghie del morto. Negli Us
nel 1700 una donna arrivò ad istruire il proprio medico di infilarle
un lungo ago nel cuore prima di seppellirla e un uomo chiese di
segare via la testa o togliere il cuore per evitare un suo eventuale
ritorno. In Inghilterra nel 1896 venne istituita “l’associazione
per la prevenzione della sepoltura prematura” che pretendeva
l’esecuzione di test scientifici sul presunto cadavere prima della
tumulazione.

Nel
cimitero episcopale di St. Helena in Beaufort, South Carolina negli Us c’è
un’antica tomba in mattoni risalente all’epoca della schiavitù e
delle coltivazioni di cotone contenente i resti del dottor Perry che
si racconta chiese di essere seppellito con pane, vino e un’ascia. I
suoi schiavi gli costruirono una tomba ad arco per permettergli in
caso di risveglio di poter usare l’ascia per uscire. Ad
oggi però è tutto ancora dove era stato lasciato all’epoca e
l’ascia non è mai stata usata. Quindi era morto sul serio.

Una immagine della tomba del dottor Perry come si presenta oggi. 

Parliamo ora di invenzioni. Nel 1843 tale Christian Eisembrandt di Baltimora Us,
ottenne il brevetto per una bara attrezzata con coperchio rimovibile
dall’interno in caso di risveglio dell’occupante, l’invenzione non ebbe molto
successo perché funzionava solo se la bara era posta fuori dal terreno.

In
Belgio il conte Karnice-Karnicki inventò una bara con un tubo che
arrivava in superficie munito di bandiera, campanello e una lampada
attaccata alla fine del tubo che avrebbe dovuto essere attivata da
eventuali movimenti del corpo all’interno.

Qui vi ho messo un paio di immagini ad esempio di bare attrezzate per un eventuale risveglio. Vanilla Magazine ha pubblicato un interessante articolo a riguardo. 

Sempre
in tema di campanelli, in Germania nei primi anni del 1900 c’erano i
“mortuari di attesa” o Wartende Leichenhallen, dove i corpi erano conservati su delle
lastre di marmo fino ai primi segni di decadimento, unico segno
sicuro di morte. I corpi erano ricoperti di fiori portati da parenti
e amici e alle dita erano legati dei campanelli che suonavano in caso
di movimenti del cadavere. All’aumentare dei gas da putrefazione il
corpo si muoveva e i campanelli suonavano spesso costringendo i
guardiani a continui e inquietanti controlli, soprattutto di notte
quando i mortuari erano chiusi e deserti. Raramente vennero ritrovate
persone vive ma i giornali dell’epoca riportarono il caso di un
bambino di cinque anni ritrovato a giocare con le rose bianche che
gli avevano posato in testa.

Oggi
possiamo affidarci alla scienza in sicurezza. Sappiamo che la morte è
un processo complesso. Dopo lo stop del cuore, ancora per tre ore le
pupille possono rispondere ad alcuni stimoli luminosi. Dopo 24 ore la
pelle può ancora essere usata per innesti e dopo 48 sono le ossa che
possono essere ancora buone.

La
storia ci riporta i diversi metodi utilizzati anche dai medici per
determinare la morte, i più classici erano gli specchi e le piume
accostate al naso per vedere il respiro. Nell’opera Re Lear è
Shakespeare che ci parla dell’uso dello specchio diffuso tra i medici
già ai suoi tempi.

Nell’America
coloniale le persone determinavano la morte con il tocco della fiamma
di una candela sulla punta di uno degli alluci. Emergeva una vescica.
Se il corpo era di un morto la vescica sarebbe stata piena di aria e
sarebbe bruciata, se l’alluce era di un vivo la vescica non sarebbe
bruciata. In Inghilterra nel 1817 gli stessi consigli si possono
trovare in un “utile” manuale scientifico dedicato all’argomento.

Oggi
determinare vita o morte è più complicato. La moderna tecnologia ci
ha fornito strumenti in grado di far rivivere le persone. Negli
ospedali ci sono macchine che fanno battere il cuore e circolare il
sangue anche di chi non ha più funzioni cerebrali.

La morte
dai medici moderni viene definita in modo diverso rispetto al
passato. La definizione più accettata oggi è “morte cerebrale”
che significa una perdita completa delle funzioni della neocorteccia
e del tronco encefalico.

Nel
libro Death to dust il dottor Kenneth Iserson elenca i passi
per stabilire una perdita di irreversibile delle funzioni del tronco
encefalico.

1)
Determinare le cause del coma, 2) decidere che il danno strutturale è
irreversibile 3) eliminare tutte le cause reversibili come droga,
freddo o intossicazione e 4) dimostrare l’assenza di riflessi nella
neocorteccia.

Per
terminare l’articolo un’ultima riflessione sul perché della
morte. Le risposte che ci siamo dati sono molte.

Ci
possono essere motivi biologici e fisiologici. Nel libro How we
die
viene descritto il processo in modo particolareggiato. Ma ci
sono anche leggende e miti che riguardano la morte passati di
generazione in generazione.

Un mito
zulu dice che dio mandò un camaleonte a dire agli uomini che la vita
era eterna. Il camaleonte si distrasse per strada e il dio mandò una
lucertola che portò agli uomini la notizia della morte e poi ritornò
dal dio. Quando il camaleonte arrivò ormai era tardi e non poteva
più essere fatto niente.

Ecco qui il nostro leone che striscia a terra, come è chiamato il camaleonte in lingua zulu. 

I navajo
raccontano che venne chiesto al coyote di decidere tra la vita eterna
e la morte e lui lanciò una pietra nell’acqua. Se avesse galleggiato
sarebbero vissuti per sempre altrimenti sarebbero morti. La pietra
andò ovviamente a fondo e gli uomini si arrabbiarono. Il coyote
parlò loro dicendo che non potevano vivere tutti in eterno
altrimenti in breve non ci sarebbe più stato posto per i raccolti e
sarebbero tutti morti di fame, era meglio lasciare il posto ai
bambini.

Terminiamo
questo particolare e lungo articolo con una riflessione del Buddha
che insegna che nulla è permanente.

”Il
mondo è un fenomeno transitorio. Noi tutti apparteniamo al mondo del
tempo. Ogni parola scritta, ogni pietra scolpita, dipinto o civiltà,
ogni generazione di uomini svanisce, come le foglie e i fiori delle
estati passate. Ciò che esiste è cambiamento, ciò che non è
cambiamento non esiste.”

E con
questo vi lascio, come al solito vi auguro una buona lettura e alla
prossima con un altro invito alla lettura.

Alice
Tonini