Charles Dickens: l'inghilterra del 1800 con le sue grandi speranze e disperate illusioni

Benvenuto lettore dell’ignoto, come avrai notato anche tu sono un paio di mesi che non ti posto un buon invito alla lettura. Oggi torno di nuovo a parlarti di un autore di cui mi sono già occupata in passato: Charles Dickens.

Lo scorso articolo avevamo parlato del natale e del suo racconto Canto di Natale, stavolta sotto la nostra lente d’ingrandimento è finito il romanzo Grandi speranze o in inglese Great Expectations. Personalmente ritengo che Dickens fu uno dei migliori scrittori della sua epoca con una sensibilità verso i problemi sociali che pochi altri fino a quel momento hanno saputo riportare su carta. E non solo. Grandi speranze è considerato uno dei più grandi e sofisticati romanzi dell’autore e un classico della letteratura vittoriana con centinaia di adattamenti teatrali.

 

 

Nel capitolo otto di questa novella il giovane narratore in prima persona annota con il suo spirito fanciullesco quanto dovesse essere felice lo Zio Pumblechook, proprietario di un negozio di semi, di avere “così tanti piccoli cassetti nel suo negozio”. Il Pip bambino sbircia dentro i cassetti e vede semi di fiori e bulbi “impacchettati in carta marrone“ e si chiede se quei bulbi e semi non abbiano voglia di “uscire dalle loro prigioni e fiorire“. Che espressione meravigliosa, inconscia del suo stato! Un bambino intelligente, ricettivo e sensibile, l’orfano Pip viene allevato da una vecchia e malinconica sorella e dal mite zio Joe, un fabbro illetterato. I tre vivono nel mondo classista dell’inghilterra del primo 19° secolo. Il Pip bambino vive come rinchiuso in una borsa serrata all’interno di una scrivania. Pip avrà bisogno delle abilità di Houdini per bruciare i limiti della sua prigione e prendere il volo.

Le osservazioni di Pip ci accompagnano alla scoperta delle disuguaglianze di cui farà esperienza; soprendentemente il suo primo scontro con il mondo dei ricchi arriverà presto. Pumblechook lo porta nella casa dell’eccentrica Miss Havisham che vive con la sua figlia adottiva Estrella, una ragazza altezzosa con circa la stessa età di Pip. Qui impara a conoscere le fitte del risentimento, l’umiliazione degli sguardi di disprezzo per i suoi stivali logori e le esclamazioni di disgusto al suo dialetto da classe operaia. (“ Questo ragazzo è Jack dei furfanti! “ disse Estrella durante un gioco di carte).

 

 

La sceneggiatura è complessa con personaggi che attraversano e ri-attraversano le strade che li portano a incrociare la vita del protagonista nel suo paesino natale, a Londra e perfino in egitto. Non farò nulla per spoilerarvi le sorprese riservate a chi legge per la prima volta l’opera. Per chi di voi ne avesse la possibilità consiglio anche la lettura in lingua originale per apprezzare meglio la musicalità del linguaggio dell’autore: “violent blasts of ran” ,”rages of wind”, e “gloomy aloomy accounts…from the coast of shipwreck and death”.

I lettori del romanzo si innamoreranno della ricca galleria di personaggi proposti. Il prigioniero fuggito Magwitch che chiede aiuto a un terrificato Pip il quale raggiunge i ranghi del crimine rubando cibo e bevande dalla casa della sorella che lo ospita. La rancorosa Miss Havisham che vive nel suo abito da sposa con una torta nuziale coperta dalle ragnatele dimenticata su di un tavolo. Il potente avvocato Mr.Jaggers con la testa piena degli oscuri segreti dei suoi clienti e con le mani che devono essere lavate col sapone profumato dopo ogni appuntamento. L’assistente di Jaggers, il signor Wemmick: guardiano di una proprietà immobiliare, impeccabile sul lavoro e amorevole assistente del vecchio padre a casa.

Anche in questa opera Dickens si rivela il genio dei dettagli. Il suo talento è così prodigo che a volte un personaggio presente in una frazione di pagina può rimanere impresso nella memoria del lettore per sempre: un esempio è il ragazzo di Trabb (se leggerete il libro lo troverete di sicuro) che è in grado di smontare la falsa arroganza di Pip con tre parole e un sogghigno: “Don’t know ya!”.

 

 

 

Il libro è un Bildungsroman, un racconto di crescita, come gli altri che vi presento in questi mesi, ma si distingue per il messaggio. Noi seguiamo Pip dall’età di sette anni fino a quando raggiunge i ventirè; il capitolo finale vede Pip nei suoi trenta. Il nostro protagonista passa da un promettente inizio con grandi aspettative (come dice il titolo), a una vita da gentleman, la vita di un giovane uomo che ha bisogno non di sporcarsi le mani con il lavoro ma piuttosto di vivere sulle spalle di un benefattore anonimo. Il suo seme germoglia ma l’atmosfera calda di una vita agiata non guadagnata con le proprie forze e attraverso i propri meriti lo fa diventare cieco. Il romanzo ha una morale profonda e ancora attuale che cattura il lettore moderno durante le quasi cinquecento pagine.

La storia si presenta con due finali alternativi. Il primo scritto da Dickens stesso, il secondo venne composto su consiglio del popolare scrittore Sir Edward Bulwer-Lytton, che ispezionò le bozze e propose a Dickens di rendere il finale più solare. Oggi le ristampe presentano entrambi i finali e ognuno di noi può decidere quale è il suo preferito… un consiglio secondo la mia opinione: chi oggi ancora legge Bulwer-Lytton?

E anche per questo consiglio di lettura è tutto. Spero tanto di averti invogliato a prendere in mano un buon romanzo per rilassarti un po’. Un caro saluto e alla nostra prossima avventura nel mistero.

Alice Tonini

Regali vittoriani e un canto di natale

 In vista del natale, mancano una manciata di giorni, oggi parliamo delle curiose usanze del dono nel natale vittoriano. Tradizioni che influenzano ancora oggi le festività in quasi tutto il mondo.

Dal punto di vista sociale il dono e il suo significato simbolico sono da sempre oggetto di studio da parte delle scienze sociali: da Malinowski a Mauss. Il dono vive di una propria economia basata sulla capacità dell’oggetto di soddisfare i bisogni di una persona, ha uno scopo diverso da quello dell’economia basata sul mercato.

A noi interessa la tradizione del dono risalente al 1800, durante il regno della inglesissima regina Vittoria. Quali doni si scambiavano? Come avveniva lo scambio?

La tradizione inglese del natale vittoriano ci ha tramandato una festa di eccessi e fasti che per le grandi famiglie di ceto più elevato significava dare sfoggio delle proprie disponibilità economiche. C’erano gli addobbi creati dalle signore di casa, l’albero, il banchetto per il pranzo della vigilia e del giorno di natale, le cartoline per scambiarsi gli auguri e i libri.

Per quanto riguarda i doni non c’erano regole precise ma ogni famiglia aveva tradizioni diverse: alcuni li scambiavano per capodanno, altri la vigilia o il giorno di natale. Lungo l’epoca vittoriana ai dolcetti, alla frutta, alle noci e ai piccoli pensierini fatti a mano si sostituiscono veri regali da scambiare in famiglia e con gli amici. I più benestanti hanno doni anche per la servitù e giocattoli per i bambini. All’inizio sono le donne di casa a pensare e confezionare i piccoli regali a mano, solo verso la fine del 1800 inizia la corsa agli acquisti così come la conosciamo noi oggi.

I doni nel mondo anglosassone vittoriano sono portati da Santa Claus che nel 1885 nelle cartoline di Louis Prang è già vestito con i suoi tradizionali abiti rossi, parecchio tempo prima della coca cola. Con lui il dono diventa il fulcro della festività. Oggi esiste la tradizione del 25 dicembre ma in quell’epoca Santa Claus arrivava con il suo carico di doni quando gli era più opportuno.

Era il lontano 1843 quando Charles Dickens pubblicò Un canto di Natale, un romanzo breve che molto probabilmente è anche una delle sue opere più conosciute. Scritto in sole sei settimane senza schemi o bozze ma solo con appunti a margine di pagina esprime i suoi pensieri in un racconto parzialmente autobiografico.

L’autore racconta della conversione del vecchio tirchio Ebenezer Scrooge dal cuore di pietra, avaro sia nei propri confronti che nei confronti degli altri, che si rifiuta di festeggiare il natale condividendo le sue ricchezze con i più bisognosi. Il libro descrive tradizioni e usanze dell’epoca con un forte accento sulla condizione dei più poveri che approfittavano della festività per racimolare qualche soldo in più. 

L’autore si ispirò a John Elwes che si vantava di poter vivere con 110 sterline l’anno ma che in realtà possedeva un patrimonio di duecentocinquantamila sterline, una cifra astronomica per l’epoca. Indossava abiti da mendicante, non usava candele o fuoco ma faceva asciugare i suoi vestiti con il calore del proprio corpo indossandoli. Le tenute di sua proprietà finirono tutte in rovina così come i mobili all’interno. Deputato al parlamento inglese dove si recava con un misero cavallo magro, mangiando un solo uovo per pranzo. Viveva accanto ai servi e negli ultimi anni di vita non aveva nemmeno una casa ma vagava tra le sue proprietà sfitte. Nascondeva denaro in luoghi diversi della casa passando le sue giornate a controllare i nascondigli. Un tirchio che causò danno solo a sé stesso.

Dickens dopo avere vissuto una infanzia di stenti e miseria sulle strade di Londra, criticò aspramente la società vittoriana, in particolar modo le classi più agiate che nulla facevano per combattere le condizioni di degrado di gran parte delle città. Il libro ebbe un successo incredibile e fece crescere a dismisura donazioni e beneficienza smuovendo le coscienze collettive. 

Nel 1800 alcuni quartieri di Londra soprattutto l’est end (es. Whitechapel, la zona del “popolo pattumiera”) appartenevano a poveri, derelitti e prostitute che dormivano ammassati in stanze quando erano fortunati, e vivevano per strada. I bambini accompagnati dalle madri mangiavano ciò che trovavano nelle pattumiere, mentre quelli abbandonati a sé stessi erano ospitati in case di lavoro dove li sfruttavano per lavorare come schiavi tutto il giorno in condizioni disumane in cambio di un pasto. Da questa realtà misera, nelle settimane che precedono le feste, provengono i carolers, da cui il libro trae il nome “A christmas carol“. Si tratta di gruppi di cantori, dai quartieri più poveri, che passavano le giornate per strada al freddo a cantare canti natalizi e racimolare qualche moneta e che poco avevano a che fare con lo spirito natalizio. Si aggiravano in gruppi di tre: uno di loro suonava, uno cantava e l’altro mendicava tra la folla con la speranza di essere ospitati a pranzo da qualcuno.

In un quadro sociale del genere il natale e lo spirito natalizio dei doni sono roba da ricchi. La tradizione inglese del 26 dicembre conosciuta come boxing day deriva proprio dall’usanza dei ricchi di scendere per strada con scatole e ceste per condividere con i più poveri il cibo e fare della carità. Famosa è la scena nel libro della Alcott “Piccole donne” dove le sorelle raggiungono una famiglia bisognosa per condividere con loro il cibo.

Volete un elenco di “regali vittoriani” da fare a ciascun parente? Bisogna considerare che all’epoca ogni membro della famiglia ricopriva un ruolo ben preciso, dal severo padre di famiglia alla nonnina amorevole quindi non era troppo difficile indovinare il regalo giusto.

Madre: ventaglio, sciarpa, profumo, cuscino per spilli e aghi, ditali d’argento con forbici per cucire o abbonamenti a riviste.

Al papà e al nonno: bretelle ricamate, pantofole, astucci per tabacco, ombrelli o portasigari.

Nonna: piante, cornici, tovaglie, segnalibri.

Sorelle: Nastri per capelli, manicotti, bambole di cera, ventagli, set da cucito, canarini o guanti.

Fratelli: Slittino, album, animali in legno intagliati, modellini, biglie, mattoni da costruzione, scatole portadenaro, soldatini di stagno.

Ci sono regali vittoriani che mi sono dimenticata?

Fatemi sapere, nel frattempo buona lettura.

Alice Tonini