Dal disagio al disgusto: in viaggio tra le emozioni più caratteristiche della paura

Lettori del mistero, la nebbia si contorceva come un sudario umido, avvolgendo ogni cosa in un silenzio denso di presagi. Non era una notte per i vivi, ma qualcosa di strisciante, assetato di sangue, si muoveva tra le ombre. E noi, amanti dell’orrore, eravamo lì, sull’orlo dell’abisso, pronti a spingere lo sguardo oltre il limite della sanità mentale, pronti ad esplorare emozioni dense di oscurità. 😉

L’essenza della paura si nasconde in un labirinto di sensazioni, un pentagramma emotivo su cui gli artigiani dell’orrore compongono le loro macabre melodie per raggiungere il migliore effetto drammatico possibile. Si tratta di cinque vibrazioni primarie, cinque oscuri accordi che risuonano attraverso le pagine e lo schermo, modulando il terrore che ci avvolge. Non sempre essi sono presenti in egual misura, né necessariamente tutte insieme, queste cinque chiavi emotive sono gli strumenti prediletti da scrittori, sceneggiatori e registi per scardinare le porte della nostra psiche. Riusciranno a dosarle con maestria, a trovare la combinazione perfetta per condurci sull’orlo del precipizio drammatico?

Il mestiere di chi evoca l’orrore si snoda su un doppio binario: dare forma scritta al terrore e, attraverso questa forma, orchestrare le pulsazioni del racconto. La suspense, il sussulto improvviso del jump scare, la vertigine inattesa del colpo di scena: strumenti affilati forgiati nella fucina della narrazione. Quando la mano è esperta, questi momenti si fondono con l’essenza stessa della storia, emergendo come ombre naturali da un crepuscolo ben costruito. Ma guai se l’artificio si svela, se la forzatura stride come un’unghia sulla lavagna dell’inconscio. Allora, la magia si infrange, rivelando un’aggiunta posticcia, un’eco vuota nel cuore pulsante del racconto.

Cinque chiavi per scardinare l’anima, cinque gradini che conducono inesorabilmente all’oscurità più profonda. Non un ordine casuale, ma una precisa progressione studiata per avvilupparvi in una spirale di crescente inquietudine: il disagio, subdolo serpeggiare di un’ombra inattesa; la paura, un sussurro gelido che preannuncia la minaccia; il terrore, l’urlo muto di fronte all’inevitabile; l’orrore, la rivelazione abominevole che lacera il velo della realtà; e infine, il disgusto, la repulsione viscerale che contamina l’anima. Questa è la scala maestra su cui i maestri dell’incubo ci invitano a salire, un viaggio senza ritorno nel cuore pulsante dell’ansia.

Il disagio è un nodo alla gola che serra il respiro, è la sensazione di piombo fuso che paralizza le gambe al primo presentimento di un male oscuro. È l’eco di silenzi troppo densi, di bisbigli striscianti alle spalle come serpi nell’ombra. È l’equilibrio precario di chi cammina sul ponte di una nave in tempesta, con l’abisso pronto a inghiottire al primo passo falso. È la pagina bianca dove una mappa avrebbe dovuto guidarci, l’assenza che grida più forte della presenza. È la mano che sfiora, il contatto fugace che lascia dietro di sé un vuoto inquietante, la sparizione silenziosa di ciò che era nostro. A volte, il disagio si manifesta come un’increspatura nel tessuto della realtà, un mondo che si ostina a danzare fuori sincrono con i nostri sensi, rifiutandosi di piegarsi al nostro sguardo.

Il disagio è considerato il primo stage, una sentinella silenziosa del viaggio nell’orrore. Può essere evocato da tanti elementi: un ambiente inedito, un confine invalicabile, una premonizione funesta (come nella serie di Final Destination), una persona appena conosciuta nel cui sguardo leggete minacce velateche (ad esempio Orphan), uno straniero misterioso (vedi la serie Halloween). È fruscio tra le fronde, uno scricchiolio che risale le scale, l’ululato nel vento e le luci che sfarfallano nel corridoio. Da un punto di vista tecnico il senso di disagio può essere modulato in modo efficace solo nel primo atto perchè si tratta di un precursore, una sensazione delicata che si dissipa quando arriva il vero terrore. Non è specifico. Una volta raggiunto il punto di non ritorno quando lo sconosciuto fa sentire la sua presenza (uccidendo o possedendo le persone) allora il disagio ha fatto il suo lavoro. Nei film o nei libri che parlano di case misteriose ci sono standard Freudiani che rafforzano la sensazione di disagio. La stanza chiusa a chiave è un esempio comune (The Skeleton Key; Softley 2005).

L’essenza perturbante del disagio risiede in questo sottile gioco con l’ignoto e con la nostra irrefrenabile brama di trasgressione. Avete mai posto un divieto a un bambino? La sua curiosità si acuirà come una lama, e quel confine proibito diverrà l’oggetto del desiderio più ardente. Allo stesso modo, la stanza chiusa a chiave non è solo uno spazio negato, ma un enigma che pulsa nell’ombra. È la soglia verso un regno di meraviglie inesplorate o la porta d’accesso a un inferno silente? Il disagio si ammanta di una suspense strisciante quando il silenzio notturno è squarciato da gemiti indistinti, quando graffi sinistri percorrono le pareti come artigli invisibili, quando il ritmo frenetico di piccoli piedi risuona in corridoi deserti. Un filo di luce che filtra da sotto una porta sigillata, un’ombra fugace percepita oltre la soglia: frammenti inquietanti che alimentano la nostra immaginazione più oscura, trasformando la semplice attesa in un’agonia. Si può aggiungere suspense al disagio utilizzando suoni notturni, graffi sulle pareti e sul pavimento, piedi di bambini che corrono in giro (Dark Water; Salles 2005), una luce accesa che filtra sotto la porta o dei movimenti che si percepiscono all’interno.

La porta è una barriera simbolica che impedisce l’ingresso ma può anche essere un portale verso l’altro. Non deve essere neppure la porta di una stanza ordinaria, può essere quella di una cella o un piano dimenticato e nascosto di un ospedale (Boo; Ferrante 2005 – Autopsy; Glerasch 2008), l’ala di un manicomio chiusa per rinnovamento (Session Nine; Anderson 2001). Questi elementi aumentano l’aura di mistero e confermano la sensazione di disagio. In una casa c’è l’attico con tutti i suoi bauli segreti pieni di giocattoli posseduti e sedie a dondolo che si muovono da sole, (Black Christmas; Clark 1974); in cucina c’è la credenza dove ci si può nascondere da Michael Myers (Poltergeist; Hooper 1982; The Amityville Horror; Douglas 2005); nei garage puoi trovare roulotte chiuse a chiave che possono contenere…chi lo sa? Forse è troppo presto per esplorare lo spazio oscuro e profondo e non abbiamo ancora raggiunto il momento dell’incontro con altri esseri viventi, forse.

E poi c’è la cella della prigione o uno sgabuzzino segreto. Ogni serial killer che si rispetti ne ha uno (Il silenzio degli innocenti; Demme 1991), spesso completo di pozzo (The Hole; Dante 2009), compartimenti nascosti e simboli satanici (The Sect; Soavi 1991). Una stanza nascosta è utile per esplorare dei tunnel segreti, lo spazio maledetto e nascosto dove nascondere i propri demoni. Ne Il silenzio degli innocenti è davvero necessaria la cella di una prigione per tenere a bada gli psicopatici? Non potrebbe essere meglio la stanza di un manicomio più facilmente controllabile? Hannibal Lecter, il peggiore di tutti gli psicopatici ha una parete di vetro, spessa ma trasparente, così nulla ci protegge dalla sua fame (mmm… fegato). Quando il Dr Chisholm porta Clarice Starlin a fare un tour l’autore ci da una ottima lezione di disagio che diventa paura. Tutto inizia con il dottore che la avvisa man mano che la scena procede, le mostra una fotografia (che tiene sempre con sè) dell’infermiera sfigurata che Hannibal si è mangiato. Tiene lontana la protagonista dai corridoi dell’ospedale (dove c’è un paziente matto), discendono le scale fino a una porta rossa chiusa a chiave e poi con un giro di camera di 360 gradi sbirciamo nella guardiola prima di affrontare il pauroso corridoio. Closer…Clo-ser! Sibila Hannibal, ragno sulla sua mosca.

Il disagio è oggetto e soggetto favorito dello scrittore di storie di fantasmi e paranormale. Molti horror asiatici sviluppano bene queste tecniche. Il disagio può essere correlato al futuro, l’ansia quando ci si preoccupa di quello che potrà accadere. È una sensazione molto efficace perchè non è radicata in nulla di concreto. Con il disagio quasi ogni oggetto nelle vicinanze assumerà un significato più grande dell’oggetto stesso. Due dei più grandi horror di sempre L’esorcista (Friedkin 1973) e The Shining (Kubrick 1980) modulano il disagio per un periodo parecchio prolungato.

Paura. Un brivido sottile, la consapevolezza strisciante che qualcosa non va. Non una semplice sensazione, ma un’ombra che si allunga su di noi, sussurrando un pericolo imminente. Immagina il suono lontano di sirene, che si fanno sempre più vicine, fino a quando il rosso lampeggiante ti sorpassa, inghiottito dalla stessa strada che stai percorrendo verso casa. Oppure, per un istante eterno, il vuoto gelido nel punto esatto dove un attimo prima c’era una piccola mano nella tua. A volte, è un presagio silenzioso: una busta anonima che reclama la tua attenzione, un appuntamento che si trasforma in un’assemblea di volti tesi, carichi di un’ansia contagiosa. È l’eco di un pericolo che non hai ancora visto, una minaccia indefinita che si insinua nell’aria. Non importa se la sua origine è oscura, se la sua forma è incerta: la paura è reale, palpabile. È la valuta oscura che alimenta gli incubi sullo schermo, il battito accelerato nel petto dell’ignaro protagonista che si avvicina all’ignoto. L’ombra si sta muovendo. La senti anche tu?

Se manca la paura allora manca la connessione tra il pubblico e il protagonista. La migliore cosa che si possa fare in questo momento è creare un senso di insicurezza nel lettore o nello spettatore, da qui possono nascere scene da incubo. La domanda fondamentale in questo caso è “Qual’è il peggio che può accadere?” Create questo scenario e di certo aggiungerete una bella dose di paura alla vostra opera. Una volta che avrete avuto paura, sarete sollevati perchè almeno i vostri timori erano fondati – anche se un pazzo con una motosega tra le mani vi stà dando la caccia. Nel film Don’t Look Now (Roeg, 1973) si parte con movimenti veloci che provocano disagio e paura. Una bambina piccola gioca vicino a uno stagno, suo fratello va in bicicletta su dei vetri rotti. C’è una bambola di G.I. Joe ma con la voce da donna. C’è un cavallo che corre selvaggio in lontananza attraverso i campi – per lo spettatore tutto sembra sbagliato. I genitori, il cui ruolo è ricoperto da Donald Sutherland e Julie Christie, sono dentro casa, hanno mangiato il pasto della domenica (forse). Lui prepara una presentazione architettonica sulle chiese del rinascimento italiano. C’è del sangue sullo scivolo, Qualcuno o qualcosa di rosso è seduto in un dondolo. La loro figlia indossa un cappotto rosso. Improvvisamente non la si vede più. Il panico genitoriale è alle porte. Lui esce e si lancia nell’acqua gelida. Si immerge e riemerge con il corpo senza vita. Sua moglie esce traballante e collassa a terra con un terribile urlo di dolore. Paura.

La paura può anche essere crescente, con il tempo sempre più intensa. Un buon esempio è The Vanishing (Sluizer, 1988) nel quale una giovane coppia che stà facendo un tour in Francia decide di fare un pausa a bordo strada. Saskia lascia Rex al computer e scompare, senza lasciare traccia. Ricomparirà tre anni più tardi, quando Rex inizia a ricevere messaggi dal suo rapitore. Quasi tutto il film si gioca sulla paura crescente. Il protagonista Rex ha la sensazione che sia tutto sbagliato ma non sa cosa c’è in gioco davvero. Può solo aggirarsi nel buio, incapace di opporre resistenza, fino a quando va incontro al suo inevitabile destino.

La paura è anche ben modulata in The Mist (Darabont, 2007), man mano che gli esseri che si muovono nella nebbia intrappolano gli abitanti del piccolo paese in un supermercato locale. Ogni tentativo di uscire si scontra con le spetate creature; una volta che i personaggi si uniscono tutti insieme, la storia diventa interna e si rivela il vero horror nella forma della pazza donna cristiana: Mrs Carmody. Man mano che raccoglie seguaci invocando i testi biblici e condannando i razionalisti, il nostro eroe e suo figlio diventano coscienti che il vero nemico è il fondamentalismo che risiede nella mente delle persone e che la caccia alle streghe porterà a un sacrificio di sangue: Lasciate chi è senza peccato…La paura è inesplicabile perchè è reale; il protagonista sa che l’inspiegabile deve ancora accadere ma non è in grado di fare nulla a riguardo. Questo chiude la trappola attorno ai nostri insospettabili partecipanti. Il maestro non può lasciare via di scampo al protagonista, altrimenti cade la credibilità. Il ponte deve essere crollato (The Evil Dead, Raimi 1981), tutti i soldi devono essere stati spesi nell’acquisto della proprietà (The Amityville Horror, Rosenburg, 1979), la mappa deve essere andata persa (The Blair Witch Project, Myrick e Sanchez, 1999). L’oscurità discende, l’ultima fiamma di luce si spegne mentre i lupi mannari e i vampiri si risvegliano. La paura è la prova emotiva che noi ci siamo identificati nel modo appropriato con il protagonista mentre questo discende nel mondo dello sconosciuto.

Il terrore. L’apice nero, l’istante in cui l’orrore si manifesta in tutta la sua putrida gloria. Dimentica la paura, l’ansia strisciante di ciò che potrebbe accadere. Il terrore è l’adesso, un pugno nello stomaco che ti toglie il respiro. È l’incubo che si materializza di colpo, strappando il velo della finzione per mostrarti la sua carne viva e pulsante. Immagina la creatura, sbavante di un acido corrosivo, le fauci spalancate su un intrico di lame affilate. Questo è il terrore. L’urlo che squarcia il silenzio, non un avvertimento, ma il suono primordiale della carne che si lacera. È la maschera di orrore dipinta sul volto della vittima, un riflesso distorto del tuo stesso panico che monta. Il terrore non concede tregua, non lascia spazio al pensiero. È qui, adesso, una presenza nauseabonda che ti fissa con occhi famelici. Lo senti il suo fiato gelido sul collo?

Il buon regista userà tagli veloci mostrando movimenti congelati, strappi, lacrime, denti, dettagli del nascondiglio, le lame dei coltelli che scintillano al buio. Non c’è via di fuga mentre il cuore batte nel petto all’impazzata. È viscerale e semplice come una auto sbucata dal nulla che avanza verso di noi a tutta velocità. L’adrenalina pura farà lottare il protagonista per la propria vita o lo farà fuggire ma tanto sappiamo che nessuna di queste soluzioni sarà efficace. Alcuni sostengono che il terrore debba essere usato con parsimonia. Pensate alla scena di un inseguimento in un film di azione che non può durare in eterno dopo che sono state inserite tutte le varianti dei salti, delle cadute, e dei salti attraverso le finestre con i vetri in frantumi che si spargono attorno. Le scene di azione sono puro spettacolo e come tali sospendono la trama e lo sviluppo del personaggio. I film che hanno successo nel tenere lo spettatore sul filo del rasoio sia attraverso il secondo che il terzo atto sono rari. In Halloween (Carpenter, 1978), una volta che Michael inizia ad uccidere di nuovo non si ferma mai. In egual misura è Texas Chainsaw Massacre (Hooper, 2007), Saw (Wan, 2004), Feast (Gulager 2005) [Rec] (Balaguero e Plaza, 2007) e Eden Lake (Watkins, 2008). E vogliamo non citare Terrifier? Un capolavoro del terrore.

Visto che è così difficile riuscire a mantenere questa emozione a lungo, è buona pratica utilizzarla per le fasi finali del film o del libro. Texas Chainsaw Massacre lo fa con la scena della festa a cena quando Clarice si ritira con James Gumb e [REC] lo gestisce facendoci urlare come scolarette proprio nel frame finale. Utilizzare il terrore non è complesso perché sono momenti che devono essere scritti senza tagli, senza sovra descrizioni o troppo interplay sul personaggio. Queste scene richiedono molta preparazione, utilizzatele saggiamente e risparmiate il vero terrore per il vostro personaggio principale.

C’è anche la convenzione del doppio risveglio ben esemplificata da American Werewolf in London (Landis, 1981) dove David Kessler si risveglia da un incubo correndo attraverso la foresta solo per scoprire che il suo rifugio è stato circondato da uomini lupo qualche istante prima del vero risveglio. Questo genere di doppio o falso shock (comune in Final destination) funziona solo come colpo di scena ironico, horror, ad esempio nel film Tremors (Underwood 1990) o Piranha 3D (AJA 2010), il finale deve avera una grande frase ad effetto e un sonoro urlo. In gergo tecnico questo si chiama la grande risata nel quale viene preparata una scena di terrore ma la si fa sgonfiare solo per rilanciarla verso il pubblico verso la fine. Di solito il pubblico ride perché non è in grado di distinguere tra il falso shock e quello vero. Bisogna però portare attenzione perché se si approfitta troppo di questo effetto si rischia di minare l’integrità e la credibilità dell’opera. Va utilizzato con parsimonia e aggiungerà emozioni senza misura all’esperienza. Il sogno termina e il terrore si risveglia molto bene in Carrie (King, De Palma; 1976), dove il finale felice, invece di essere il funerale di Carrie è l’incubo infinito del suo pazzo tormentatore. Il terrore deve sempre essere una sorpresa, anche se il risultato è quello di creare tensione, disagio e paura costruiti lungo tutta la storia, o invece arrivare dal nulla. Se utilizzate il terrore nella prima parte del libro deve essere breve, altrimenti più tardi dovete fare tutto il possibile per sostenerlo.

Orrore è una fotografia di Auschwitz. È l’autopsia aliena, il rumore dei corpi in putrefazione che vengono aperti e mostrati su un bizzarro tavolo in Texas Chainsaw Massacre (Hooper, 1974). Inizialmente quando il mondo è stato consapevole dell’olocausto non si riusciva a capire la scala di una tale carneficina. L’orrore crebbe con la contemplazione delle cose terribili che erano state fatte e il modo in cui embrava di essere tornati ad un epoca non civilizzata. Non è una paura presentita, l’orrore è meno efficace nell’ immediato rispetto alle emozioni precedenti.

Ma quando usciremo dalla sala cinematografica sarà l’orrore che porteremo con noi, per questo è così importante. L’orrore è la considerazione non solo di quello che i Cenobiti (Hellraiser, Baker 1987) fecero ai loro prescelti, ma l’aspetto sadomasochistico che loro e noi volevamo, in qualche modo…come possiamo vedere nell’ espressione rapita di Frank quando viene letteralmente tagliato a metà da una catena. Non è solo la possessione di Regan nell’Esorcista (Friedkin, 1973), la fine del quale combina terrore e orrore in modo ottimale, noi siamo sia emozionati che affascinati durante la scena dell’autopsia o sulla scena di un crimine.

Pensate a come noi rimaniamo perplessi quando in un libro c’è una discussione tra due personaggi e subito dopo ci aspettiamo un massacro decente. Un esempio cinematografico è Seven, con le fotografie delle vittime sgranate e di bassa qualità, oppure all’ inizio de Il Silenzio degli innocenti. Ci viene mostrata una immagine luminosa e ben definita di una infermiera passata tra le mani del buon Hannibal. Il pubblico vuole di più, sempre di più. La fuga di Lecter è una sequenza da cinema Grand Guignol, inizia quando quando sentiamo gli spari e l’indicatore dell’ascensore salta da un piano all’altro. Numerosi poliziotti circondano l’edificio, isolando il piano dove Lecter è tenuto in una grande gabbia artificiale. Termina quando entrano con le pistole spianate e trovano un collega sgozzato e accomodato come un crocifisso rinascimentale. L’orrore di quanto accaduto è catturato in una immagine statica che si combina con la nostra contemplazione di quello che immaginiamo possa essere successo. Solo una incredibile follia può aver pensato un simile tableau. E ancora, non è finita perché Lecter non è più in giro. Il sergente Pembyry giace prostrato, la sua faccia è una maschera di sangue, è ancora vivo ma incapace di parlare. Puro orrore. L’orrore non è mai abbastanza, e più tempo passiamo con l’ oggetto della nostra repulsione più ci abituiamo ad essa: inserite ripetute scene con elementi orrorifici e perderanno ogni efficacia. Deve essere usato con moltissima parsimonia, sparso come gocce di sangue, sangue scuro e viscoso.

Disgusto. Ricordi la familiarità del sangue che cola, la pelle strappata? Poi, la metamorfosi inquietante. Non più ferita viva, ma una crosta scura, aliena, che si radica nella tua carne. Una curiosità morbosa ti assale: cos’è questa escrescenza innaturale? Quale segreto abietto cela sotto la sua superficie ruvida? E se… se la grattassi via? Ecco il disgusto. Un richiamo primordiale all’orrore che si insinua sotto la pelle. È lo sguardo fisso sull’indicibile, qualcosa di così profondamente sbagliato da lasciare un segno indelebile nella mente. È viscerale, certo, ma anche intimo, una reazione al ripugnante che ti appartiene, eppure è universale come la nausea. Ma nel regno dell’orrore, il vero potenziale del disgusto è rimasto a lungo sopito, soffocato dal pudore e da un mondo già fin troppo intriso di abomini reali. Solo quando il sipario della guerra è calato, rivelando abissi di depravazione, l’orrore ha osato spingersi oltre, nel territorio viscido e putrescente del disgusto puro. Ora, preparati. L’abietto sta per mostrarsi in tutta la sua sconvolgente realtà. E non potrai distogliere lo sguardo.

Prima della guerra c’erano i vampiri, Frankenstein era un pazzo e gli uomini lupo erano meno viscerali. Uccidere era di solito fatto tramite strangolamento, come in Rope (Hitchcock, 1948) oppure gli spari erano senza sangue. Psycho (Hitchcock 1960) fu il primo film a introdurre coltellate multiple (senza una penetrazione dell’arma) e così venne permutato in bianco e nero, con salsa al cacao spacciata per sangue. Il padrino del grottesco e il creatore del genere film splatter fu Herschall Gordon Lewis con Blood Feast (Lewis, 1963) il film fu un esercizio gratuito di cattiva recitazione ma ebbe il merito di portare il grottesco sullo schermo. Gli italiani Mario Bava e Dario Argento aggiunsero violenza, complessità morale e penetrazione con un arma.

Negli Stati Uniti il disgusto fiorisce nel lavoro di Wes Craven nelle scene estese di tortura (viene introdotta la motosega come arma splatter per la prima volta) in L’ ultima casa sulla sinistra (Craven, 1972) e Le colline hanno gli occhi (Craven, 1977), ma non dimentichiamo La notte dei morti viventi di Romero (Romero, 1966) il precursore di molti zombie mangia persone che sono appaarsi nei film nel 2000. È con l’arrivo degli Slasher negli anni ’70 che si è popolarizzato il grottesco, opere come Black Christmas (Clark, 1974), Texas Chainsaw Massacre (Hooper, 1974), e Halloween (Carpenter, 1978) ci hanno portato a casa le carneficine. Rick Baker, vinse un Oscar per il grottesco make up degli effetti speciali di American Werewolf in London (Landis, 1980), insieme agli effetti di Rob Bottino in The Things (Carpenter, 1982) diedero il via agli effetti speciali prostetici, e aprirono i cancelli a opere come Hellraiser (Barker, 1987) e i film grotteschi iniziarono a dividersi in multipli sottogeneri.

Cari lettori del mistero, non illudetevi che il sipario sia calato. Queste emozioni primordiali, queste ombre che danzano ai confini della percezione, non sono che un assaggio. Esistono abissi ancora più oscuri, terrore inimmaginabile che pulsa silenzioso, in attesa del momento propizio per rivelarsi. E di questo… di ciò che si annida nel profondo, di ciò che striscia nell’ombra più fitta… ne parleremo ancora. Oh, sì. Ne parleremo molto presto. Fino ad allora, vi lascio con questo pensiero inquietante. Dormite sonni tranquilli… se ci riuscite.

Alice Tonini

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