A chi non piace un bel film Slash?

Ed eccoci oggi all’ultimo appuntamento, per ora, con il cinema horror e i suoi sottogeneri. Non potevo che finire con il mio genere preferito: gli slasher.

Gli Slasher o i film chiamati anche Stalk e Slash sono i più difficili da affrontare tra tutti i sottogeneri a causa della marea di cliché che li circonda, ma è anche il genere con cui l’industria cinematografica ha fatto i soldoni, tanti soldoni. Ed è il genere che ha creato personaggi iconici come Michael Myers o Freddy Krueger. E il ragazzo frustrato, quello moro, che nei film riceve  sempre la notizia peggiore e se ne dispera.

Il nostro ragazzone è già pronto!

 

L’inizio del genere può essere fatto risalire agli anni ’70 circa con Black Christmas – Un natale rosso sangue (Bob Clark, 1974) ma la sua popolarizzazione arriva senza dubbio con Carpenter e l’iconico Halloween – La notte delle streghe (Carpenter, 1978) il genere ha preso piede negli anni ’80 con filmoni e sequel come Nightmare on Elm Street  e Venerdì 13. Oggi entrati nella storia del cinema.

A questi seguono film di seconda fascia fatti solo per gli incassi come Sleepaway Camp (Hiltink, 1983) e Prom night (Lynch, 1980), i quali non aggiungono nulla al genere. E potremmo rimanere qui a citarne a decine di questi sottoprodotti.

 

 

L’introduzione di VCR e VHS, le famose videocassette, significa che l’orrore non resta più confinato nei cinema e può aggirarsi per le case garantendo notti insonni e rumori inquietanti a tutti.

Negli anni ’90 arriva Kevin S.Willamson con Scream (Craven, 1996) introducendo una nuova icona indimenticabile: Ghostface. Un personaggio post moderno che porta ironia, in un sottogenere all’epoca stanco e demotivato, che uccide le star come Drew Barrimore e i primi quindici minuti del film sono uno storico omaggio a Psycho. In quel momento il gioco degli slasher diventa quello di sovvertire il film di paura tradizionale ribaltando i cliché e peccato che come al solito i sequel, Scream II (Craven, 1997) e seguenti, risultino un po’ piatti. Gli imitatori sono arrivati con I know What you did last Summer (Gillespie, 1997) e Urban Legend (Blanks, 1998).

 

 

La teorica femminista Carol Clover scrisse un trattato sul genere Slasher intitolato “Men, women and Chainsaws” (Clover, 1992), nel quale lei crea la teoria della ragazza finale.

L’autrice descrive la ragazza che sopravvive al massacro del nostro killer definendola come l’investigatrice coscienziosa del film, l’unica che mostra intelligenza, curiosità e che resta vigile durante tuttol’arco narrativo. Di solito le viene affibiato un nome americano unisex tipo Laurie o Sidney, è spesso vergine o si comporta con i ragazzi in modo morigerato, non interessato o non disponibile al sesso, all’opposto dei suoi compagni/amici (da qui arriva l’idea errata che negli horror il sesso sia connesso alla morte del personaggio). Di solito è connessa al killer a causa della sua famiglia o degli ambienti che frequenta, e nel corso dell’azione si mascolinizza impossessandosi di un arma (simbolo fallico) appropriata con la quale fare fuori l’assassino di turno.

Per arrivare alle fasi finali deve essere a conoscenza del male, lo spettatore deve avere l’impressione che lei sia sommersa dal male, psicologicamente ma spesso anche fisicamente entrando nel campo di caccia del killer (case infestate, cimiteri abbandonati etc.). Ci sarà sangue e fango e fluidi vari per replicare il liquido amniotico. Ci sarà una morte simbolica e una rinascita in un tunnel o simil tale. In Halloween (Carpenter, 1978) l’utero è una credenza con una porta a doghe: per alcune ragioni (come si nota  in Behind the mask: the rise of Leslie Vernon 2006 di Scott Glosserman, i serial killer in questi film sono spaventati dagli sportelli di legno delle credenze.

 

 

La nostra ragazza finale deve essere femmminile perchè deve affrontare e sostenere il rigetto psicologico del terrore che in un qualche modo il mondo maschile non può tollerare. Nei fatti il suo genere può essere abbastanza fluido. E’ una specie di maschiaccio, mai una sgualdrina ( quella di solito è bionda e cheerleader), e lontana anni luce dall’idea degli anni ’50 di eroina bisognosa di aiuto e di un eroe/principe azzurro. In questo modo Clover sostiene che la sua fluidità di genere combinata con la mascolinità estrema del killer illustra l’impatto del femminismo sulla cultura popolare.

Ovviamente si tratta di una teoria che è stata molto discussa, ha i suoi pro e i suoi contro. Non ve la presento per verità assoluta ma ognuno di voi è libero di trarre le proprie conclusioni.

Molti scrittori, registi e produttori sono consapevoli delle regole scritte o meno del genere Slasher e negli ultimi dieci anni sono stati fatti diversi tentativi per cercare di evitare l’ovvio e sovvertire le regole. All the boys love Mandy lane (Ievine, 2006) è un esempio da medaglia d’argento: una caratterizzazione forte dei personaggi, molti buchi nella trama ma una rivelazione finale che delizia (e annoia allo stesso tempo). Teeth (Lichetenstein, 2007) nonostante sia qualcosa di più di una pellicola comica dalle tinte dark riprende i film degli anni passati (abbiamo già parlato di un film dove compare una vagina dentata) e ha anche una protagonista femminile forte. In Cabin Fever di Eli Roth (Roth, 2002) tutti i personaggi sono intenzionalmente spiacevoli, così non ci dispiace se le donne si ammalano.

Gli Slasher hanno attraversato la loro fase rococò e ora sembrano in un momento di stasi ad eccezione di parodie, omaggi, prequel e sequel poche pellicole colpiscono per elementi innovativi e originali (Hatchet; Green 2006).

 

 

Comunque la pensiate si applicano ancora due fondamentali regole: la giovane protagonista forte è adattabile ad entrambi i sessi e seconda regola fondamentale la ragazza carina con la maglietta bianca o khaki e il seno prosperoso attrae sempre fidanzati facoltosi e  popolari (magari giocatori di football). Voi che dite?

E anche per questo sottogenere abbiamo finito e salutiamo il cinema horror. Spero abbiate trovato divertenti gli articoli dedicati, d’altronde io sono qui proprio per questo, e ci vediamo alla prossima.

Nel frattempo non dimenticatevi di leggere un buon libro, ogni anno ne vengono pubblicati più di 90.000 solo in Italia. Vi sfido a trovarne almeno uno che vi piaccia. Date una possibilità anche ai miei romanzi e iscrivetevi alla newsletter per tenervi sempre aggiornati.

Alice Tonini

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Gridiamo più forte con Baldwin e gli afro-americani del secolo scorso

Bentornato, oggi torna la rubrica degli inviti alla lettura con la prima opera del nuovo genere che vi propongo.

 

 

 

Abbandoniamo il genere biografico e le autobiografie più famose e vendute al mondo per approcciare dei romanzi che ci portano in viaggio, più precisamente nei prossimi mesi parleremo di libri i cui protagonisti affrontano un viaggio di formazione per crescere sia all’interno che all’esterno e noi impareremo tramite il loro viaggio dell’ eroe.

Iniziamo da un’opera semi-autobiografica. Il titolo in italiano è Gridalo forte ma il titolo originale è Go Tell It on the Mountain che deriva da una canzone del genere “Negro Spiritual” o spiritualista negra (assolutamente intesa in modo spergiativo) perchè risale alle canzoni che gli schiavi cantavano nelle piantagioni di cotone per darsi forza e coraggio durante le massacranti ore che trascorrevano sotto il sole. Il ritornello dice “Go tell it on the mountain that Jesus Christ is born“. 

 

 

E’ un titolo molto evocativo per un libro. Il primo che Baldwin considerò fu In My Father’s House che allude a versi biblici “In my Father’s House are many Mansions “, una sola frase che cattura i conflitti principali dell’intera opera: la relazione turbolenta del protagonista con entrambi i padri sia quello naturale che quello celeste. Un conflitto religioso e di identità che accompagnano il protagonista per tutto l’arco narrativo.

Alcuni ipotizzano che Baldwin scelse il titolo Go Tell it on the Mountain in onore dell’improbabile villaggio Loeche les Bains sulle alpi svizzere dove scrisse la maggior parte del romanzo. In questo paesaggio di alabastro (frase di Baldwin) lui fu il primo nero in assoluto ad essere visto da molti dei residenti locali e rimase tappato in casa con la sua macchina da scrivere per mesi. Compose la storia di tre generazioni di afro americani nell’Harlem del 1935 e nei primi anni del ventesimo secolo nel sud degli Stati Uniti. Lucien Happersburger, suo amico e amante la cui famiglia possedeva una casa nel piccolo paese, persuase Baldwin ad essere accompagnato solo dalla sua Remington e le sue registrazioni della cantante Bessie Smith. Proprio come Edith Wharton sedette in rue de Rivoli a Parigi per scrivere di villaggi ricoperti dalla neve in Ethan Frome, così qui Baldwin utilizzò la distanza geografica per catalizzare e invocare la brillantezza semantica.

 

 

Come già vi ho anticipato si tratta di un opera parzialmente autobiografica, il passato dell’autore fu quindi un elemento nattativo fondamentale. Come Baldwin stesso, il personaggio principale John Grimes affronta il senso di alienazione dalla sua famiglia, la sua distanza dalla comunità religiosa ( la chiese pentecostale) e dalle aspettative familiari. La prima riga del libro porta subito conflitto: “Tutti hanno sempre detto che John sarebbe stato un prete una volta cresciuto, proprio come suo padre”. 

La struttura del romanzo rende gli sforzi di John con il suo senso di differenza e i suoi problemi con la questione della salvezza religiosa l’alpha e l’omega del libro (Baldwin tratta in modo innovativo i passi che portano alla conversione ispirandosi a Sant’Agostino e a Jonathan Edwards). Tra questi due conflitti c’è una sezione di tre parti incredibile chiamata Le preghiere dei santi dove il lettore entra nei pensieri e nelle memorie della zia apostata di John, del suo odioso padre e della sua sensibile madre le cui memorie di Richard, il suo primo tragico amore, sono per me la parte più emozionante del libro.

Preparatevi a questo romanzo con la lettura della raccolta di saggi Notes of a Native Son, dove ritroverete gli stessi temi trattati in modo più diretto. Qualsiasi cosa Baldwin abbia provato come adulto riguardo la sua discendenza e la sua gioventù, raggiunge tono e cadenza paragonabili alla traduzione della bibbia di re James. La dura vita in campagna e il bellissimo linguaggio da cittadino, sono due aspetti del romanzo che si completano l’un l’altro in modo magnifico. Troverete piacevole anche la descrizione di Langston Hughes che racconta storiacce di basso livello con una borsa di velluto.

E anche per questo invito alla lettura è tutto. 

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