La morte è destino: comprenderla oggi

 Oggi torna la rubrica dedicata ai temi della narrativa horror: inchiostro nero fumo. L’articolo tratta del tema della morte visto con gli occhi di noi uomini moderni e della letteratura contemporanea.

Vi devo però avvisare che si tratta di una tema trasversale a tutti i generi e troppo ampio per essere rappresentato da una manciata di titoli o autori. Il tema della morte per il genere horror è un caposaldo ma anche nel thriller e nel fantasy le opere che trattano questa tematica in modo serio e approfondito sono molte.

Definire cosa si intende per morte è difficile, quasi impossibile. Per uno scienziato la definizione è diversa rispetto a quella che può dare un artista o un poliziotto. Vedremo nei prossimi articoli della rubrica che per le donne e gli uomini primitivi il lutto era vissuto in modo molto diverso rispetto a come lo viviamo oggi. Noi moderni crediamo di sapere tutto sulla morte eppure quando ci troviamo coinvolti in prima persona nella
perdita di una persona cara ci troviamo in difficoltà. La scienza
descrive dettagliatamente e morbosamente ogni più piccolo dettaglio
di quanto accade al nostro corpo quando le funzioni vitali cessano eppure quello che accade ci fa paura, esiste persino la fobia della morte chiamata tanatofobia che colpisce milioni di persone in tutto il mondo.

I ricercatori sostengono che
esiste attorno all’argomento “morte” quella che è stata definita
una congiura del silenzio. Non se ne parla e chi lo fa viene
censurato, messo a tacere o isolato. Se da un lato questo permette di non pensarci troppo o troppo spesso,
dall’altro ci toglie la possibilità di riflettere attorno ad un
evento naturale e inevitabile con la conseguenza di trovarci
totalmente impreparati davanti al momento della perdita di una persona cara.

Fino a qualche decennio fa il lutto riguardava non solo tutta la famiglia ma anche
l’intera comunità, ogni compaesano partecipava portando le sue condoglianze e la
sofferenza era cosa normale e di pubblico dominio. Ad esempio c’era l’usanza, al passaggio del corteo funebre, di chiudere le serrande dei negozi e il negoziante restava in strada a portare le sue condoglianze. Oppure in Campania esisteva la tradizione dell’ “o’cunzuolo”. Il consolo era un dono portato alla famiglia in lutto da vicini, amici e parenti che consisteva in cibo pronto già cucinato o pacchi di caffè e zucchero per aiutare chi in quel momento si trovava in un momento difficile. 

Il lutto di una persona fino a qualche decennio fa doveva essere visibile anche agli altri, da qui l’usanza di vestirsi di nero o quella delle praefiche o piangitrici, donne e bambine che dovevano disperarsi durante i funerali. 

Le famiglie contadine del nord Italia osservavano la tradizione della veglia con il morto, giorno e notte alla luce di candele perennemente accese per assicurarsi che il suo spirito non restasse a vagare per casa. C’era poi l’usanza di coprire gli specchi per evitare che l’anima del defunto specchiandosi restasse intrappolata in questo mondo. Si tenevano aperte porte e finestre di casa per fare uscire lo spirito ma quelle dei vicini andavano tenute chiuse, si potevano spalancare solo dopo il funerale per evitare che lo spirito entrasse nelle case. Si lasciavano sedie vuote attorno alla bara per fare sedere gli antenati che desideravano partecipare alle veglie. Il camino di casa doveva essere coperto da un telo per evitare che entrassero uccelli a cavare gli occhi dal corpo e a portare malaugurio sulla famiglia e per lo stesso motivo la bara andava posta con i piedi del defunto verso la porta da cui sarebbe uscito al momento del corteo funebre.

Oggi tutto questo si sta perdendo, il lutto è
vissuto come evento privato e personale, qualcosa che bisogna
nascondere agli altri per il timore di essere giudicati.

In aiuto di noi homo sapiens moderni arrivano psicologi e ricercatori che ci raccontano come riusciamo a
elaborare il lutto nella nostra mente fin da bambini.

In Europa dopo la seconda guerra
mondiale, Maria Nagy, psicologa e ricercatrice, chiese a 378 bambini
ungheresi dai tre ai dieci anni di raccontarle cosa pensassero della
morte.

I bambini più piccoli, che
soprannominarono la ricercatrice zia morte, discussero con lei delle
loro opinioni e fecero dei disegni da regalarle. I bimbi più grandi
riuscirono a scrivere su carta ogni cosa che veniva loro in mente.

Nagy studiò le loro rispose e giunse
alla conclusione che esistono tre livelli di comprensione del lutto.

I più giovani da i tre ai cinque anni
tendono a essere curiosi e a chiedere informazioni ai più grandi
riguardo funerali, bare e cimiteri. Per loro la morte è
semplicemente la vita che prosegue ma in un modo diverso rispetto a
quello che accade tutti i giorni: le persone morte non possono vedere
o sentire come i vivi, non fanno niente tutto il giorno e non hanno
nemmeno fame. E loro possono persino tornare se vogliono. I bambini
più piccoli pensano alla morte come a qualcosa di noioso, non
divertente, e al peggio la considerano sinonimo di solitudine e
spavento.

Dai sei anni i bambini realizzano che è uno stato finale ed entrano nella seconda fase. In questa
si realizza che è definitiva e alcuni di loro pensano di potergli sfuggire se sono intelligenti, attenti o fortunati.
Christy Ottaviano ricorda che quando era alle elementari

Christy potrebbe aver smesso perché è
entrata nella terza fase, quella della comprensione della morte. I
bambini realizzano che non è solo il passo finale di ogni vita ma è
anche inevitabile: tutti muoiono anche se intelligenti, attenti e
fortunati. Anche le persone che trattengono il respiro quando
camminano vicino a un cimitero. scrive
un bambino di dieci anni. Un’ altro scrive. La terza fase, che è anche l’ultima inizia attorno ai
dieci anni e continua per tutta la vita.

Oggi la psicologia ha coniato il
termine di “death education” o educazione alla morte per indicare un
percorso di supporto psicologico che accompagna la persona sofferente
nella gestione del lutto. 

Le persone oggi devono fare i conti anche con la spettacolarizzazione
mediatica che spesso ama raccontare solo i tratti più violenti, drammatici o macabri che accompagnano la dipartita di qualcuno perché sono quelli che più attirano l’attenzione. Persino
i film dell’orrore a volte non fanno un buon servizio alla nostra
comprensione ma alimentano fantasie irrazionali che hanno la sola conseguenza di alimentare la paura al posto di una sana riflessione.

Come ho già detto all’inizio dell’articolo il tema della morte nei romanzi è
trasversale a tutti i generi. Dal mainstream fino all’horror la morte
è protagonista di decine di romanzi. Difficile quindi indicare un
titolo, o una manciata di titoli, che da soli possano essere
rappresentativi di un tema così complesso e articolato trattato da
quasi ogni scrittore, ma proviamo lo stesso. Notevole è Rumore bianco
di Don Delillo, anche Sette minuti dopo la morte di Patrick Ness non è male, se preferite stare sui classici allora abbiamo L’ultimo
giorno di un condannato a morte di Victor Hugo, Edgar Allan Poe con
La morte rossa (…ma non solo…) e La metamorfosi di Kafka (di cui
abbiamo già parlato in un invito alla lettura). Ci sono libri illustrati per bambini come ad esempio L’isola del nonno di Benji Davies o Il sentiero di Marianne Dubuc. E chi più ne ha più
ne metta.

Anche per oggi è tutto, ovviamente si
accettano suggerimenti nei commenti. Ci vediamo nel prossimo post.

Buona lettura e alla prossima.

Alice Tonini